A vent’anni dalla fine della guerra la Bosnia Erzegovina è un Paese diviso. La separazione etnica messa nero su bianco dagli accordi di Dayton altro non ha fatto che fotografare la situazione sul terreno. E, da allora, nulla si è mosso
Passato il confine a sud, tra Croazia e Bosnia Erzegovina, all’altezza di Metkovic, dopo pochi chilometri si arriva ad un bivio. A sinistra si prosegue per il santuario di Medjugorje, a destra verso Mostar. Le indicazioni stradali in cirillico sono cancellate, i serbi furono i primi ad andarsene dalle alture intorno alla città, campo di battaglia, casa per casa, tra bosgnacchi e croati, prima che i bombardamenti di questi ultimi distruggessero il ponte del XVI secolo. “Dove smette la logica inizia la Bosnia” è una frase che abbiamo sentito più volte, in pochi giorni.
A vent’anni dalla fine della guerra la Bosnia Erzegovina è un Paese diviso, dove la separazione etnica messa nero su bianco dagli accordi di Dayton altro non ha fatto che fotografare la situazione sul terreno. E, da allora, nulla si è mosso.
La presidenza della Repubblica è a rotazione, ogni otto mesi, tra croati, bosgnacchi e serbi. Una pluralità puramente simbolica che non crea altro che un fatale e costante stallo istituzionale. La Bosnia Erzegovina è costituita infatti da due entità governative principali: la Repubblica Srpska e la Federazione croato-musulmana divisa a sua volta in dieci cantoni autonomi specchio anch’essi della divisione etnico-territoriale interna.
Il ponte di Mostar è stato ricostruito, come l’antico quartiere musulmano raso al suolo nei primi anni Novanta, grazie a valangate di soldi per la ricostruzione, arrivati dall’Europa quasi ad espiare una responsabilità frutto di ignavia e di mancanza di una volontà politica che in tutta la ex Jugoslavia ha reso possibile il massacro, alla porta meridionale di un’Unione oggi in via di disgregazione sulla spinta di milioni di profughi che scappano da altre guerre.
Al memoriale di Potocari, a Srebrenica, si cammina, in silenzio, tra le 6241 tombe che testimoniano il genocidio dei bosgnacchi ad opera delle truppe serbo-bosniache del generale Mladic. Dall’altra parte della strada, l’ex fabbrica per batterie d’auto ospitò i soldati dell’Onu che abbandonarono al loro destino gli abitanti della città. Grandi capannoni arrugginiti, muti testimoni dell’indifferenza del mondo. Šehida Abdurahmanovic, dell’associazione madri di Srebrenica, afferma: “Siamo molto sole. Viviamo di ricordi”. Che, a sentirla, ti si gela il sangue nelle vene. Per arrivare qui da Sarajevo non c’è un cartello stradale che sia uno, se non a pochi chilometri dalla città, come se non esistesse. Ci si deve affidare alla guida o al satellitare.
A fianco della più grande moschea di Mostar, in una delle vie principali, c’è un grande cimitero “a cielo aperto”, non nascosto da siepi. Su ogni lapide, e sono tante, una data, il 1993, l’anno più terribile. Un’Agenzia della democrazia locale prova a pensare la città del futuro, dove non si tengono elezioni municipali dal 2008 a causa delle divisioni tra le forze politiche, coinvolgendo i giovani di tutte le etnie. Ci vorranno anni.
Sulla strada per Sarajevo, i cimiteri sono nei giardini di casa. Nella capitale, l’albergo dove alloggiamo ci “accoglie” con un cartello che indica il divieto di introduzione delle armi. Di fronte, la collina dall’altra parte della Miljacka che prima della guerra era un parco, ora è un cimitero a perdita d’occhio. Faris Focak, nostra guida e interprete, riflette: “Durante l’assedio della città c’è stata solidarietà tra gli abitanti, ora vedo molto individualismo, anche tra i giovani. Se c’è un futuro per la Bosnia non può che essere dentro la Nato e l’Unione europea”.
Il presente è fatto anche di progetti che partono dal basso, come a Bratunac. Qui, per la coltivazione dei piccoli frutti sostenuta dalla cooperazione trentina, si è avviato un processo di riconciliazione grazie anche alla creazione di posti di lavoro. O a Sarajevo, dove l’associazione Youth for Peace promuove iniziative di convivenza interetnica e interreligiosa.
L’ex generale Jovan Divjak, a capo della Difesa territoriale di Sarajevo durante gli oltre 1000 giorni dell’assedio, si occupa degli orfani di guerra. Commenta: “I ragazzi vogliono collaborare, ma non ci sono le condizioni. I crimini di guerra li hanno compiuti tutti, musulmani, serbi, croati. E nessuno, tra i politici, vuole scusarsi. Tra loro non c’è nessun Willy Brandt”.
Salendo a nord, tra Bosnia e Croazia e tra Croazia e Slovenia controllano i documenti come si fosse ai tempi della cortina di ferro. Nell’attesa, tra un confine e l’altro, non resta che attraversare a piedi il ponte sulla Sava, nella terra di nessuno, alle porte di un'Europa in agonia.
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