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Sono arrivato per la prima volta nel campo di Idomeni il 12 marzo 2016. Ci sono arrivato come attivista dei centri sociali per capire come organizzare la marcia #overthefortress e per descrivere la situazione su MeltingPot.org. Ci tornerò alla fine di aprile, perché quel che succede in quel luogo va osservato e raccontato. Prima ancora della necessità di aiutare, vi è quella di narrare e denunciare le barbarie che stanno avvenendo alle porte dell’Europa.
Circa una settimana prima del mio arrivo a Idomeni, è avvenuta la chiusura definitiva del confine greco-macedone, dovuta alla decisione austriaca di chiudere le proprie frontiere. Fino a quel momento, tra le 50 e le 100 persone al giorno riuscivano ad attraversare quel confine pur con enormi difficoltà e umiliazioni. Per i Paesi sulla rotta balcanica non è mai stato un problema lasciar passare i migranti, seppur a singhiozzo o di nascosto, poiché nessuno fra i viaggiatori prendeva in considerazione l’idea di fermarsi prima di arrivare nel cuore dell’Europa. Ma con la decisione di chiudere le frontiere più interne si è formata una reazione a catena innescata dalla paura di dover gestire i migranti bloccati nei propri territori contro la propria volontà.
Appena arrivato al campo l’impatto è stato molto forte. L’aspetto di un enorme campeggio non riusciva a nascondere i drammi nei volti delle migliaia di persone bloccate in quel luogo. Subito dopo l’entrata del campo, costellata di venditori di cibo e sigarette, compaiono le tende sgualcite, gli anziani e i bambini a lato delle strade che denunciano immediatamente la tragicità della situazione. Pioveva da cinque giorni consecutivi. Siamo abituati a narrare del meteo in termini descrittivi, per dare l’idea della luce o dell’atmosfera di un particolare momento. Ma la realtà è che a Idomeni la pioggia ha condizionato pesantemente l’esistenza delle persone e la loro vita quotidiana. Moltissime le tende immerse dal fango, tantissime altre quelle proprio senza fondo. In tanti ci hanno confessato di non avere più nemmeno un pezzo di vestiario asciutto da giorni. Ovunque, vestiti stesi sotto la pioggia perché non c’è luogo asciutto dove lasciarli. Le malattie si moltiplicano: dal mal di gola alla febbre, quasi tutti hanno sofferto almeno qualcosa. Per non parlare dei bambini: alcuni di loro in quei giorni hanno contratto persino l’epatite A per via delle condizioni inumane in cui erano bloccati. Ma questo ovviamente non ha piegato la resistenza delle persone.
Poco dopo l’entrata del campo ho incontrato una protesta di migranti di fronte al confine. Ai cori ‘‘No border’’ e ‘‘Germany’’ si univano grida in arabo, in curdo e chissà in quante altre lingue. Circa 250 persone bloccavano la ferrovia in segno di protesta, chiedendo la riapertura del confine. Ben due treni sono arrivati nei pressi del blocco e sono stati fatti tornare indietro. Con l’arrivo della sera, la protesta si è affievolita e infine il treno è stato lasciato passare.
Abbiamo seguito con attenzione le manifestazioni all’interno del campo. Benché l’organizzazione della marcia abbia occupato buona parte del nostro tempo, bisogna ricordare i presupposti politici che ci hanno portato a Idomeni. La nostra intenzione non è mai stata quella di organizzare una spedizione umanitaria: riteniamo infatti che il problema principale di queste persone non sia la mancanza di cibo o di vestiti, né l’assenza di un tetto o di un medico, bensì il confine stesso. Ed è importante ricordarlo. Durante il nostro viaggio abbiamo distribuito scarpe e vestiti e medicine o accompagnato le persone dal medico, ma il nostro scopo principale non è stato quello di rendere dignitosa la loro permanenza nel campo. Non lo è stato perché se c’è una cosa che non manca a queste persone è proprio la dignità: in tanti, tantissimi ci hanno risposto di non volere cibo né aiuto, ma di voler solo proseguire. Le persone con cui abbiamo stretto dei legami sono state molto generose e ospitali con noi, offrendoci tutto il poco che avevano: dai biscotti alla frutta, da un’intera cena alle coperte per la notte. Siamo convinti che il problema principale da affrontare sia la chiusura dei confini, che per noi rimangono artificiosi e inesistenti. Una chiusura che deriva da politiche a dir poco criminali dell’Unione Europea.
Questa consapevolezza profondamente politica l’abbiamo portata a Idomeni, mentre distribuivamo vestiti ma anche mentre supportavamo le proteste dei migranti. Sono proprio loro, essendo i primi a subire le conseguenze di questi patti criminali, a creare forme di resistenza con la propria stessa esistenza: rimanere su quel confine, fuori dai campi del governo ma sotto i riflettori della stampa, è di per sé una forma potentissima di ribellione. In parte proprio poiché non deriva da una coscienza politica o teorica, ma solamente da bisogni e desideri.
C’è chi ha la famiglia o i figli in Europa, chi il marito o la moglie in Siria, in attesa di ricevere aiuti. La volontà di queste persone non si piega e non si piegherà facilmente a decisioni la cui matrice è macro-economica più che politica. Merita di essere ribadito che la crisi in corso deriva dalla gestione dei flussi migratori, non certo dal loro numero: la crisi nei Balcani della fine del secolo scorso ha portato un numero maggiore di profughi in Europa, senza che si sollevasse il tipo di resistenze cui assistiamo oggi.
L’avanzata delle nuove destre razziste e xenofobe in Europa, in combinata con la governance neoliberista, stanno di fatto creando una crisi migratoria gestendo i flussi in modo emergenziale senza la minima intenzione di cercare le soluzioni di lungo periodo che puntino all’accoglienza e all’integrazione. Tutto ciò è tenuto ben nascosto sotto il cappello della paura del terrorismo. Si potrebbero spendere molte parole sulla strumentalizzazione politica dei fatti di Parigi e di Bruxelles, ma senza tentare qui letture così complesse, basti ricordare il paradosso per cui si fornisce denaro a Daesh tramite Erdogan mentre le migliaia di persone che fuggono proprio dal sedicente Stato Islamico vengono chiuse fuori dai nostri confini, compresi migliaia di yezidi e di curdi. Nel campo di Idomeni sono presenti tanti bambini yezidi, così come tanti altri provenienti da Kobane o da Afrin o da altre città del Kurdistan siriano.
Abbiamo cercato di smascherare tutte queste enormi contraddizioni durante la marcia in Grecia. E in parte ci siamo riusciti, portando 300 persone ad Idomeni. Anche per questo, domenica 27 marzo siamo stati bloccati dalla polizia. Mentre all’interno del campo si svolgeva una protesta dei migranti, pacifica e controllata, i nostri pullman sono stati fermati all’ingresso del campo e ci è stato impedito di ripartire fino a quando la protesta non è terminata, diverse ore dopo. A quel punto, distribuito tutto ciò che avevamo portato dall’Italia, ci siamo diretti a Salonicco per prendere parte ad una protesta prevista per il lunedì mattina sotto la sede del Governo greco. La richiesta era chiara: la Grecia deve dichiarare la Turchia come un paese terzo non sicuro, e quindi rifiutarsi di deportarvi i migranti. Poco dopo l’inizio del presidio si è deciso di muoversi in corteo non autorizzato per il centro della città. Lì, raggiunti da attivisti e migranti provenienti da vari movimenti e organizzazioni di Salonicco, abbiamo gridato a gran voce i crimini di Erdogan e la complicità dell’Europa.
E allo stesso modo, abbiamo voluto far sentire la nostra voce il 3 aprile al Brennero: slegare la marcia a Idomeni da questa manifestazione sarebbe un grosso errore. La nostra permanenza in Grecia è andata di pari passi con l’impegno al Brennero e la nostra intenzione di violare quel confine. Ciò è stato importante nel nostro rapporto con i migranti: la consapevolezza che noi non fossimo lì solo per aiutarli a sopravvivere a quella condizione, ma che stessimo combattendo contro il sistema e i meccanismi che chiudono i confini ha fatto la differenza nel modo in cui molti di loro ci hanno guardato. E continuerà a farla per noi: torneremo a Idomeni, per continuare a supportare i migranti e per raccontare le loro storie, con una staffetta che vuole portare sempre più occhi indipendenti in quell’inferno. Perché è anche attraverso l’esposizione e la denuncia di questi casi che si costruisce la mobilitazione, che se ancora non ha le capacità di scalfire le potenze in gioco, di certo non passa più inosservata. Dopo l’enorme esposizione mediatica di quanto accade a Idomeni e al Brennero, si aprono degli spazi che i movimenti e gli attivisti di tutta Europa dovranno usare per mantenere la speranza di far crollare il patto fra Turchia ed Europa e per far riaprire le frontiere. ‘‘Open the Border’’ chiedono da Idomeni, e noi risponderemo con ‘‘No Border’’, perché per noi i confini non esistono.
La presenza #OverTheFortress a Idomeni continua con una staffetta. Per informazioni su come sostenere e partecipare all’iniziativa, si veda la pagina web del progetto.
(Questo articolo è stato pubblicato da www.balcanicaucaso.org http://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Open-the-Border-da-Idomeni-al-Brennero-170079)
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