Te le do io le regole…

La settima edizione di Educa s’interroga sul tema della libertà in educazione. Parla Novara, uno dei relatori di spicco

Con uno dei relatori di spicco a Rovereto, il pedagogista Daniele Novara (fondatore del Centro psicopedagogico per la pace di Piacenza) anticipiamo il tema del Festival dell’educazione “Regole e conflitti”.

Perché, come dice il titolo del suo intervento, “punire non serve a nulla”?

Si è sempre pensato che senza coercizioni i nostri figli crescessero male, ma questo è un modello arcaico. Oggi abbiamo conoscenze scientifiche che ci permettono di avere più fiducia nei nostri ragazzi. Se organizziamo bene l’insieme delle procedure, i ragazzi tendono ad adeguarsi perché è anche nel loro interesse avere una situazione dove possono muoversi con libertà nella consapevolezza di quali sono i paletti. Ovviamente però, se i paletti non sono chiari, tutto diventa più confuso.

Un esempio?

Ho sottomano una comunicazione di una scuola che minaccia di sospensione gli alunni se non si comportano in maniera “adeguata”. Il punto è: cosa vuol dire “adeguato” per un adolescente che ha un sistema cerebrale completamente diverso dal nostro?

La conflittualità è in aumento?

I conflitti sono all’ordine del giorno; saper gestire la conflittualità con i figli è la competenza che più serve ai genitori moderni. Una volta si parlava di obbedienza e disciplina, invece oggi dobbiamo costruire un ordine educativo basato su nuove competenze comunicative e di comprensione delle fasi psico-evolutive dei nostri figli. È ovvio che un bimbo di due anni faccia fatica ad ascoltare i genitori, quindi non gli si può fare una predica. Sparare nel mucchio non serve a nulla, si rischia solo di mortificare.

Nei suoi libri lei scrive che le punizioni possono compromettere lo sviluppo emotivo dei bambini…

Certamente. Ciò avviene perché si rompe il processo ontologico dell’attribuzione di fiducia. Ogni figlio sa che il genitore è la sua massima risorsa esistenziale, ma nel momento in cui egli diventa una minaccia, questo incide sull’autostima e sull’identità profonda.

Quali sono gli errori più comuni in cui incorriamo durante la gestione dei conflitti?

Quello di confondere la persona con il problema, colpevolizzandola. Dire a un adolescente: “Sei disordinato, non ascolti”, non ci porta da nessuna parte, perché le relazioni umane non sono un’aula di tribunale. Dobbiamo imparare a riconoscere le nostre emozioni e quelle altrui, a non prendere alla lettera tutti i contenuti verbali espressi durante un litigio. Soprattutto, dobbiamo capire che l’età dei nostri figli è diversa dalla nostra. Il bambino è nel mezzo del pensiero magico e non si accorge di aver detto una bugia, per lui la realtà è come ce la racconta. Allo stesso modo il ragazzino cerca di schiodarsi dal controllo dei genitori e per raggiunge questo scopo è disposto a qualsiasi trasgressione.

Le regole quindi non devono essere comandi…

Siamo abituati a pensare alla regola come una forma di costrizione. Questo va bene in una caserma, ma l’educazione deve essere un mondo dove noi cerchiamo di organizzare un sistema che sia proceduralmente adeguato alla età di alunni e figli, ad esempio valorizzando la tendenza all’abitudine dei bambini. Sul piano comunicativo è necessario usare forme impersonali come “È ora di andare a letto”, anziché “Vai a letto”.

Lei ha elaborato il manifesto del buon conflitto. In concreto, come si può diventare un buon genitore educatore senza urlare?

Facile: senza urlare, perché fa male. Ci sono ricerche di prestigiose università americane che stabiliscono come l’educazione aggressivamente minacciosa sul piano verbale, nella pre-adolescenza produca la depressione. Lo dice anche il buonsenso: una persona che ha passato tutta l’infanzia a sentirsi minacciato, poi arriva nella fase decisiva della crescita in condizioni pessime. La prima regola, quindi, è tenere a bada le proprie emozioni.

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