Da più di vent’anni è volontario nelle zone di guerra di tutto il mondo. “Nessuno, di fronte a certe situazioni, può restare spettatore”
Tel Abbas (Libano), 27 febbraio – “Il mio ruolo in Operazione Colomba? L.W.C.… Last Wheel of the Carr!”. Sorride, Alberto Capannini, lui che in realtà dei corpi di pace dell’Operazione Colomba è il fondatore. Bella intuizione, questa nata all’interno dell’Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini: non fornisce assistenza nelle aree di conflitto, ma “accompagnamento”, che significa attenzione, ascolto, condivisione. “Non è vero che il massimo che possiamo fare per gli altri è dare loro delle cose: il massimo che possiamo fare è mischiare la nostra vita con loro. Come dicono i profughi qui al campo, piangiamo e ridiamo con loro. Penso che sia una bella descrizione dell’Operazione Colomba”.
Da più di vent’anni Capannini, detto “Kappa”, è volontario nelle zone di guerra di tutto il mondo (e per volontario si intende volontario davvero: non è pagato dall’organizzazione, per mantenersi quando è in Italia tiene corsi di formazione). Balcani, Sierra Leone, Cecenia, Chiapas, Palestina, Uganda, Timor Est: in questi vent’anni non si è fatto mancare nulla. E ora eccolo qua, in questo campo profughi nel nord del Libano a 4 km dal confine siriano, nella regione di Akkar, dove il ministero degli Esteri italiano sconsiglia vivamente di recarsi. Troppo pericoloso.
I volontari dell'Operazione Colomba sono qui da un anno e mezzo. Condividono con semplicità la vita dei rifugiati siriani, scappati in prevalenza dalla città di Homs. Lui, Capannini, è qui, alternandosi con gli altri volontari, complessivamente da sette mesi. “Il nostro oggi è vivere con queste persone. Per noi è fondamentale”, dice. “Come fai a dire a una persona che la sua vita per te è importante, se non vivendole accanto e togliendo le barriere che ti impediscono di avere un rapporto quanto più possibile alla pari?”.
Il primo incontro con i profughi in Libano non è avvenuto qui a Tel Abbas, ma a una decina di chilometri di distanza, nel campo chiamato “delle 400 tende”. Ricorda Capannini: “Arrivammo al campo e chiedemmo di poter piantare la nostra tenda tra le loro. Ci dissero di no, che non potevamo. Restammo stupiti! Volevano dire che non si poteva vivere in quelle condizioni. Mi fece molto pensare, ‘sta cosa. Era come se ci dicessero: voi che siete esseri umani non potete vivere così; noi invece non siamo esseri umani… Ecco perché per noi è importante condividere la loro situazione, la precarietà, il freddo, la mancanza di acqua potabile”. Poi l’arrivo a Tel Abbas, chiamati dagli stessi profughi del campo, che si sentivano minacciati e chiedevano la protezione dei volontari giunti dall’Italia. Così è cominciata la presenza dell’Operazione Colomba a Tel Abbas.
Concretamente, la vicinanza dei volontari si traduce nell'accompagnare le persone del campo in ospedale quando sono malate, nel cercare di farle liberare quando vengono arrestate dalla polizia libanese, nel mediare con la popolazione locale quando sorgono dei conflitti. “Ricordiamo che in Libano, su una popolazione di 4 milioni e mezzo di abitanti, ci sono 1 milione e mezzo di profughi: sarebbe come se in Italia ci fossero 20 milioni di profughi”.
Privi di tutto, i rifugiati hanno però molto da insegnare. “Quando li abbiamo portati a Beirut a prendere le impronte (per l’identificazione finalizzata alla partenza per l’Italia, ndr), sui pullman gridavano: libertà. E’ chi non ha le cose che ti fa capire cosa ha davvero valore: chi non ha famiglia ti fa capire cos’è una famiglia, chi non è mai stato amato ti fa capire cos’è l’amore, chi non ha la libertà ti fa capire cos’è la libertà”.
Questo è l'oggi. Il domani, invece, è rappresentato dall'apertura dei corridoi umanitari. “I corridoi umanitari significano dare un'opportunità a queste persone, anche se non sappiamo come sarà la loro vita in Italia“, spiega Capannini. “Quello che sappiamo è che era doveroso dare loro un'opportunità: per non perdere la nostra umanità”. Visti dal campo profughi di Tel Abbas, nella regione di Akkar, al confine siro-libanese, i corridoi umanitari significano, dice Capannini, mettere in contatto la solidarietà delle persone in Italia con i bisogni dei profughi. “Nessuno, di fronte a certe situazioni, può restare spettatore. A chi dice che i numeri sono ancora limitati, dico: fai una proposta alternativa. E realizzala. Noi indichiamo una direzione”. E da uomo di mare (è di Rimini) esemplifica: “Ci sono due scogli. Il primo, da evitare, è il senso di onnipotenza, l’idea che posso fare tutto; il secondo scoglio è il senso di impotenza: non posso fare niente. In mezzo si naviga tranquillamente”.
E guardando ancora più in là, gettando lo sguardo verso il futuro, la speranza è quella di poterli aiutare a tornare nella loro terra. “Mi diceva una delle signore che portiamo in Italia: 'Io devo tornare in Siria, anche la terra grida che io devo tornare, anche gli alberi gridano: devi tornare'. Sono legatissimi alla loro terra: ricordiamoci che è stata strappata loro con la violenza”.
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