Ci dia speranza nella “medicina della misericordia”

L’annuncio della nomina di un nuovo capo della Chiesa trentina mi ha fatto ritornare alla mente un’immagine di quando ero ragazzino. Era il 12 maggio del 1963 ed anch’io, come molti trentini, accorsi a salutare mons Alessandro Maria Gottardi che faceva il suo ingresso in Trento.

A bordo di una grossa auto il nuovo prelato – percorrendo corso Tre Novembre parato a festa con i drappi alle finestre – salutava e benediceva la folla. Fu un ingresso trionfale, da vero principe della Chiesa.

Un’immagine oggi improponibile che stride con i tempi, con una società radicalmente mutata e, da quanto ho potuto leggere, con il carattere del nuovo Vescovo.

Dai due avvenimenti ci separa poco più di mezzo secolo, nel corso del quale è mutata completamente la fisionomia della società trentina ed il ruolo rivestito dalla Chiesa.

Se allora Essa era il fulcro dell’intera società, non solo sotto l’aspetto religioso, ma anche per quanto riguarda le relazioni sociali ed i processi economici (tanto da poterli condizionare), oggi si guarda alla Chiesa trentina con un atteggiamento più maturo, non solo come riferimento spirituale, ma anche come custode e difensore  di quell’umanesimo che è la caratteristica fondamentale del Vangelo e di quei valori che caratterizzano la Sua dottrina sociale.

Sicuramente oggi, rispetto ad allora, le chiese sono meno frequentate, c’è la crisi delle vocazioni, la secolarizzazione ha invaso tutti i settori della società, vi è una preoccupante denatalità, sta cambiando la fisionomia della famiglia. Una cosa però non è mutata: la fiducia che, al di là e al di sopra delle vicende quotidiane, vi sia ancora un punto fermo a cui fare riferimento. E questo vale per i credenti, ma anche per i non credenti, per tutti coloro che, pur non essendo “fedeli modello”, avvertono il desiderio di un invito alla speranza.

La speranza è il bene più prezioso dell’uomo è il dono che ti dà la forza di proseguire il cammino: è l’impulso che spinge l’immigrato a salire su una barca e rischiare la vita, è il sogno che induce i giovani a formarsi una famiglia, è la spinta che anima la vita degli anziani.

Forse il male più grave della nostra società è proprio il progressivo venir meno della speranza. Diceva Pier Paolo Pasolini: “non ho sogni, quindi non mi disegno neppure una visione futura”.

Credo sia questo il punto centrale, la sfida più grossa per il nuovo Vescovo: ridare speranza ai “non addetti ai lavori” (consentitemi questa espressione), a tutti coloro che pur sentendo la forza e la potenza del Vangelo, non hanno avuto l’occasione o la voglia (per varie vicende della vita) di poter accedere alla ”medicina della misericordia”. C’è un secondo aspetto che si lega a questa sete di futuro ed è la disponibilità all’apertura, ad uscire dalle proprie certezze a rinunciare alla propria tranquillità. “Costruire ponti e non muri”, ha ammonito Papa Francesco in Messico, riassumendo in questa frase tutti i contrasti e le paure della nostra epoca.

Il problema che la Chiesa si trova ad affrontare è quello di superare l’indifferenza, di riuscire a scuotere le coscienze, di suscitare “compassione”, di confrontarsi con il mondo rimanendo dentro i problemi del mondo, soprattutto oggi nell’era della globalizzazione e del multiculturalismo. Sotto questo aspetto il nuovo arcivescovo è sicuramente favorito perché trova una strada già ben tracciata dal suo predecessore.

Forse lo scoglio maggiore di mons. Tisi sarà proprio al suo interno: in quella struttura che ha saputo organizzare e gestire in questi anni, perché essere fra la gente non significa solo essere fra i fedeli o di chi la pensa come te: “gli atteggiamenti di benevolenza e di disponibilità al perdono diventano impervi quando ci si propone di esercitarli nei confronti di tutti senza discriminazioni”. Anche alle voci fuori dal coro.

Giustino Basso

presidente trentino dell’UCSI (Unione Cattolica Stampa Italiana)

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