Con una riflessione sulla “Lumen Gentium” lo Stat ha ricordato anche mons. Severino Visintainer ad un anno dalla morte
"Siamo servi inutili, diceva di se stesso, e un prete è come un albero: la corteccia è la spiritualità, ma il tronco, da cui dipende la stabilità, i rami e i frutti sono il segno della maturità e della sua umanità: se non c'è l'uomo, non c'è il prete".
Sono parole affettuose e nostalgiche quelle con cui Monica Visintainer, nipote di monsignor Severino Visintainer – "prete ponte" tra l'istituzione ecclesiale e la comunità -, ha ricordato lo zio, già Vicario generale e docente in Seminario, ad un anno dalla scomparsa, ringraziando tutte le persone che lo hanno apprezzato come pastore e gli sono state vicine nella malattia.
"La vita di mio zio è stata quella di un uomo libero: libero nella vocazione, perché si è fidato dei superiori che l'avevano riconosciuta in lui; libero di essere sacerdote e pastore cercando di dare il meglio di sé; libero perché costruiva legami duraturi e si è sempre sentito di Salter, il paese dove era nato, e della Chiesa; libero per e con i suoi amici, con i quali cantava e si divertiva, in particolare il gruppo giovani di San Giuseppe. Adorava confessare, liberare a sua volta, predicava con la mano alzata, prendendo parole dall'aria, e dietro la scorza apparentemente dura e la voce dal tono baritonale, stavano virtù di concretezza e chiarezza e una lucidità evangelica che lo rende una delle figure chiave della storia della comunità cristiana trentina".
L'incontro, introdotto dal saluto del direttore dello Stat monsignor Giulio Viviani, svoltosi nell'aula magna del Seminario mercoledì 17 febbraio con familiari, amici, docenti e studenti e l'Amministratore Apostolico Luigi Bressan, è poi proseguito con la riflessione affidata al vicario generale della diocesi di Bolzano-Bressanone don Michele Tomasi, sulla Gaudium et Spes nel 50º anniversario della Costituzione del Concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Lo stesso Visintainer aveva contribuito a farla conoscere e applicare da noi.
"Questo documento è importante per la prospettiva che ha aperto”, ha esordito don Tomasi, dando una chiave di lettura centrata sulla pastoralità. “Con questo termine intendo l'insieme di tutte le risorse a disposizione per l'annuncio – Vangelo, dottrina, dialogo con i saperi e con le concrete prassi e testimonianze – affinché il mondo continui il cammino per realizzare il regno di Dio. L'uomo cerca il senso profondo della sua vita e l'elemento fondamentale è proprio la centralità della persona umana e il legame strettissimo tra noi come singoli, società e mondo e Gesù".
Poi vi è anche la necessità di riconoscere "i segni dei tempi", categoria che nella Gaudium et Spes ricorre due volte ed è stata interpretata come una delle formule più significative durante i lavori conciliari. L'espressione risale a Papa Giovanni XXIII tratta a sua volta dal vangelo di Matteo (16, 1-4): "sapete interpretare l'aspetto del cielo che cambia e non i segni dei tempi?".
"Il segno da riconoscere è la presenza di Cristo nella storia, intesa non come luogo di negatività, ma flusso di vita e persone legate nella grazia in cui è presente Dio vivo che continua ad agire, e noi siamo chiamati a impegnarci per cercarne tracce e possibilità inedite di espressione, per scorgere indizi anche nelle tenebre, trovando motivi di fiducia e speranza".
Nello spirito del Concilio "i segni dei tempi" sono intesi come segni storici da interpretare alla luce del Vangelo che interpellano ogni cristiano a lasciarsi trasformare dalla Parola per il rinnovamento della vita ecclesiale e ad andare alla radice della vita interiore che è vita di comunione in Cristo, stando perciò nella storia come soggetti di bene. Quella prospettiva di solidarietà e comunanza indicata all'inizio della Gaudium et Spes che anche Papa Francesco ha richiamato, evocando l'immagine della Chiesa come “ospedale da campo” il cui compito principale è quello di dedicarsi alla cura delle ferite di chi soffre, riscoprendosi in cammino con tutti.
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