Le ho ascoltate, quelle parole; poi le ho rilette una, due, dieci volte. Non perché non ne comprendessi il significato, ma perché – al contrario – ogni volta sapevano offrirmi qualcosa in più. arole semplici che sanno aprire non una porta, ma le porte di tante stanze. Forse proprio perché semplici. Proprio perché tutti – ognuno con la propria sensibilità, ognuno con le proprie domande – le possono sentire adeguate, per certi versi anche attese.
"La nostra terra, insieme e prima ancora delle bellezze naturali, annovera uomini e donne belli – ha detto don Lauro subito nel primo saluto dopo la sua nomina – , che sanno piegarsi con tenerezza per soccorrere i tanti feriti dalla vita. Su queste persone conto tantissimo".
"Belle persone": una garbata – ma decisa – provocazione nei tempi dell'apparire, dell'estetica esaltata, del narcisismo non più celato, dei selfie ostentati a nasconder paure e solitudini. Belle persone: belle – "insieme e prima ancora" – come le nostre montagne; belle come i nostri paesaggi dove i colori – l'azzurro, il bianco, il verde – della quotidianità montanara raffigurano il bello, lo accompagnano e lo esaltano. Ed esigono rispetto, perché il "Laudato si'" non può esser solo titolo per convegni.
"Belle": non è il modo più banale, ma quello più impegnativo di definire le persone. Belle perché vere, belle perché capaci di misurarsi con il mondo, belle perché integre, che hanno gli occhi vivi, che trasmettono vitalità non per l'aspetto giovanile, ma perché sanno costruire futuro facendosi innanzitutto carico della vita: della loro e quella degli altri.
E poi quel verbo – "sanno piegarsi" – che richiama la cultura rurale, fatiche di altri tempi: la schiena curva di chi lavora la terra. Dove l'essere piegati assume persino il significato di antiche forme di rispetto. Sapersi piegare per offrire le mani in gesto di aiuto. Sapersi piegare anche per poter vedere da più vicino, per ascoltare meglio.
"Sanno piegarsi", dice don Lauro, per incontrare i "feriti della vita". Non solo i malati, non solo quelli che la vita la vedono fuggire, ma tutti quelli che – magari senza mostrare alcun segno esteriore – sono rimasti feriti nel profondo proprio dalla vita. Dall'assenza di amore, dalla scomparsa di una persona di cui ti manca terribilmente l'affetto (quasi un commovente riferimento personale per chi ha perso il papà all'età di sei anni), dalla sempre più diffusa sensazione di solitudine nella frenesia dei giorni e della gente, dalle fragilità, dalla crepe esistenziali che si allargano proprio nel dover gestire le apparenze. Le tante persone ferite dalla vita che vivono – celate nella loro difficoltà – dentro le nostre città e nei nostri paesi.
E poi, nelle parole di don Lauro, c'è infine quel termine che sembrava esser scomparso non solo dal lessico, ma persino dalle nostre abitudini, dai nostri gesti, dai nostri atteggiamenti. Quella parola – "tenerezza" – che Francesco ha invece rispolverato ed offerto quasi come neologismo per la Chiesa che si pone come riferimento non solo per i credenti (che sono sempre meno), ma per tutti coloro (e sono tantissimi) che cercano segni e risposte di speranza.
Quella tenerezza del donarsi agli altri che, mi pare, può davvero esser considerato il viatico di don Lauro, nuovo pastore della Chiesa di Vigilio. E pure riferimento per la più generale Comunità trentina che, nelle sue parole e nei suoi gesti, può ritrovare – laicamente – quei valori che il semplice richiamo all'appartenenza sembra aver talvolta smarrito.
Lascia una recensione