A Farge, in Germania, a nord di Brema il “Bunker Valentin”, dove lavorarono prigionieri di guerra e deportati, anche trentini
Si chiama “Bunker Valentin”: è un enorme edificio di cemento armato, lungo 400 metri, largo quasi cento e alto trenta. Si trova a Farge, in Germania, poche decine di chilometri a nord di Brema, lungo le sponde del fiume Weser. Nei piani dei nazisti doveva diventare un inattaccabile cantiere navale con all’interno una catena di montaggio dalla quale, ogni due giorni, doveva uscire un sommergibile completo, pronto per raggiungere il mare. La Seconda Guerra Mondiale è finita prima che il progetto si compisse interamente.
L’8 novembre 2015 il Bunker Valentin è diventato ufficialmente “luogo della memoria” e “centro di documentazione”, per rendere omaggio e giustizia agli oltre diecimila lavoratori forzati, prigionieri di guerra e deportati da ogni angolo d’Europa, che furono obbligati a costruirlo, sottoposti a condizioni intollerabili.
Fra quegli “schiavi” c’erano anche circa 1.200 IMI, Internati Militari Italiani, vale a dire soldati dell’esercito italiano che, dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943, furono rastrellati e trasferiti in Germania dai nazisti, per essere sfruttati nell’industria bellica.
Fra quegli IMI c’erano anche trentini, come Elia Tomasi, classe 1924, scomparso nell’agosto del 2014. In una sua agenda di quegli anni ci sono i nomi di altri conterranei: un Turrini di Arco, un Santoni di Riva del Garda, un Brida di Priò, un Agnoli di Mori.
«Questo è un luogo – è stato affermato durante la cerimonia di inaugurazione dell’8 novembre – che mette al centro dell’attenzione coloro che sono stati costretti a lavorare, i lavoratori coatti, che ridà loro la voce, che custodisce le loro storie».
Sono storie di sofferenze, di violenza gratuita, di sopraffazione, di disprezzo della dignità umana, come drammaticamente descritto da Elio Materassi, di Sieci (Toscana), in un diario: «Si lavorano dieci ore al giorno e qualche volta anche dodici. Si mangia una sola volta al giorno e il vitto è poco buono. Le forze a poco a poco stanno scemando. In pochi mesi siamo ridotti a larve umane. I kapò tedeschi, vedendoci ridotti in queste condizioni, sfogano su di noi tutto il loro odio, per quanto politicamente è avvenuto in Italia. Prendono a pretesto ogni piccola cosa per ricorrere, nei nostri confronti a dei maltrattamenti». Quel diario è diventato un libro («Quarantaquattro mesi di vita militare»), che è stato presentato a Pontassieve il 25 gennaio scorso.
Incredibilmente, alla fine della guerra il Bunker Valentin veniva considerato come un capolavoro tecnico dell’ingegneria tedesca: sul «Weserkurier», il quotidiano di Brema, si parlò addirittura di «ottava meraviglia del mondo», mentre in realtà era una «cattedrale dell’inferno», come lo definì in una sua poesia André Migdal, un francese che lavorò forzatamente alla sua costruzione.
Ora che è diventato luogo della memoria, il Bunker Valentin vuole testimoniare e denunciare «lo spietato sfruttamento di vite umane al servizio della politica di conquista e distruzione del nazionalsocialismo» e invitare a ricordare, con rispetto, coloro che ne furono vittime.
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