Tra le ombre, l’eccessivo peso (ancora) dalle commesse pubbliche e l’eccessiva concentrazione in settori a basso valore aggiunto
L’economia trentina affronta il 2016 ripartendo dai suoi punti di forza e di debolezza. Il programma di sviluppo provinciale per la XV Legislatura (dicembre 2014) ne dà un bel quadro: spiccano la ricchezza aggregata, l’occupazione e la ricerca. Ma la lista delle magagne è impietosa: lenta dinamica della produttività, della crescita e del ricambio imprenditoriale, forte dipendenza dalle commesse pubbliche, eccessiva concentrazione in settori a basso valore aggiunto, crediti deteriorati.
Una delle criticità più spinose, il «contenuto» dinamismo delle imprese, ridà fiato a un vecchio luogo comune, che vuole la nostra terra povera di spirito imprenditoriale, assopito fra le braccia protettive dell’autonomia. C’è del vero, ma anche un po’ di pregiudizio.
In proposito un bel testo storico, curato dal prof. Andrea Leonardi (La Regione Trentino Alto Adige nel XX secolo, Ed. Fondazione Museo Storico del Trentino, 2009), ripercorre il grande salto compiuto dal Trentino Alto Adige, che fino alla fine degli anni 50 figurava ancora tra le aree più deboli del Paese, per inserirsi in pochi decenni tra i territori con i migliori livelli di reddito e di occupazione. Scrive il prof. Leonardi: «Le risorse dell'autonomia, sommate con le capacità operative emergenti dalle aggregazioni di carattere sociale espresse dalle diverse forme di mutualismo, con la disponibilità di una forza lavoro che ha saputo far convivere agricoltura e industria e con un'imprenditorialità capace di cogliere le opportunità che le si sono presentate, si sono rese protagoniste di un cambiamento di enorme rilevanza». Avverte però che questo grande salto non è esente da limiti, soprattutto per un'eccessiva presenza pubblica, la quale ha spesso «reso fragile l'intraprendenza degli imprenditori, finendo talora per contenere, anziché stimolare, la libera iniziativa». L’analisi storica evidenzia dunque l’importante ruolo del tessuto sociale e imprenditoriale, pur difeso da quell’arma a doppio taglio che è l’intervento pubblico.
Alcuni dati relativi al confronto fra gli ultimi due censimenti (2001 – 2011), al riparo quindi dai fermenti congiunturali, testimoniano a favore dello spirito imprenditoriale trentino: il numero di imprese è cresciuto da 37 a 40 mila e i relativi addetti da 141 a 166 mila, con un aumento del 17,7 per cento, contro il 4 per cento del Nord-est e il 4,5 per cento dell’Italia. Nello stesso periodo si è però rigonfiato anche l’apparato pubblico, da 35 a 39 mila addetti, a conferma della preoccupazione espressa dal prof. Leonardi (dati Istat, Censimento industria, istituzioni pubbliche e non profit, 2011).
Resta il fatto che in Trentino ci sono 40 mila imprese, una ogni 13 abitanti (nel Nord est una ogni dodici). Di queste, ben 21 mila sono aziende individuali: è evidente la micro dimensione aziendale, ma anche lo spirito d’iniziativa di ventunmila persone che si sono autocreate il posto di lavoro. Non solo il posto fisso, caro Checco Zalone! A queste imprese se ne aggiungono altre 16 mila della classe da 2 a 9 addetti, che assorbono 56 mila persone, e 3 mila con oltre 10 addetti, che ne impiegano 89 mila.
L’economia trentina deve dunque rigenerarsi partendo dal proprio patrimonio imprenditoriale che, con tutti i suoi limiti, non è una patologia, ma una ricchezza, da rafforzare con nuovi saperi, nuovi innesti e logiche di rete. Dalla vitalità della multiforme trama delle nostre aziende, da mettere a frutto in alleanza fra le parti sociali, passa infatti la risalita oltre la crisi: sostenere i buoni progetti aziendali, pur senza drogarli, grazie ad incentivi mirati e alla qualità della domanda pubblica, e coltivare la cultura d’impresa con un’adeguata offerta formativa, non sarà uno spreco ma un investimento sociale.
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