Come in un personalissimo, umanissimo e simbolico congedo parentale
Il celeberrimo “Natale in casa Cupiello” col patriarca ostinato allestitore del presepe (“o Presepe!”), può ancora ambire ad essere archetipo significativo nel tessuto delle famiglie italiane che si apprestano a vivere le feste? Me lo sono chiesto con la coda di paglia di chi, pochi giorni fa, ha del tutto disertato il rito domestico con moglie e figli, sacrificandolo sull’altare dell’ansiogeno recupero di incombenze e compiti non svolti durante i giorni lavorativi.
Quest’anno, è certo, ho perso inevitabilmente il calore degli sguardi colmi di sorpresa dei miei cari, soprattutto i più piccoli, ancora capaci di stupirsi, pur magari fra qualche intemperanza tipica di chi si affanna per avere un ruolo il più appagante possibile in questa piccola cerimonia senza tempo.
Fare il presepe è per antonomasia santificare la festa, riconoscere il gratuito ricevuto, dare spazio all’otium sano, al riposo che contempla la bellezza del Creato e dell’essere creature o anche solo del mondo in quanto tale. Credo, infatti, non si debba tacciare di incoerenza chi, pur non credente, si accostasse a questa tradizione che, a differenza di tutte le altre natalizie (di più o meno lontana importazione estera), ha una natura squisitamente religiosa.
Cimentarsi in questa rappresentazione, che, dai tempi dell’inventore San Francesco, è divenuto universale allestimento casalingo, non è forse più nei cromosomi del maschio (alfa o zeta che sia); non è forse neppure “naturaliter” nell’istinto materno, sempre più arretrante rispetto a un bisogno di realizzazione fuori del nucleo famigliare, oltre e talvolta contro il genere femminile; se è tale lo stato in cui versano i genitori italiani quando di anno in anno arriva l’Avvento: perché meravigliarci che qualche Dirigente scolastico più qualunquista del solito proponga di eliminare questo segno così antico e così ricco della tradizione cristiana?
Credo che prima di urlare con ostentato bigottismo alla scristianizzazione del Paese, dovremmo tornare a domandarci, dal punto di vista esclusivamente umano, se siamo ancora capaci di fermarci, di ascoltare, di attendere. Sì, perché il bisogno di attendere, di fare spazio nel cuore per qualcuno-che-viene è dell’uomo, di ogni uomo e donna, prima ancora di riconoscere in quel Qualcuno il volto di Dio che si fa uomo e uomo bambino in una mangiatoia.
Il presepe è un microcosmo in cui potremmo immergerci come per riceverne una cura… potrebbe essere il primo appuntamento di un simbolico congedo parentale (quell’istituto di civiltà di cui in questa sede abbiamo già avuto modo di tessere le lodi) che permetta agli uomini e alle donne, ai padri e alle madri di domani di stare insieme guardandosi negli occhi e in quelli dei loro figli e nel contempo guardando oltre – letteralmente “trascendere” – quello che essi sono e la loro condizione contingente. È la messa in scena in uno spazio ricostruito “con arte” di tanti nostri “alter ego” nell’imminenza della nascita di un bambino: i pastori, nomadi mai fermi come i pendolari giornalieri delle grandi città italiane… i contadini che sanno leggere i segni dei tempi e non hanno mai creduto fossero sparite le mezze stagioni, la fornaia che attende che il pane lieviti e chi ha buttato il secchio nel pozzo e confida di issarlo colmo d’acqua, i Magi, per definizione “segugi di infinito”.
Il Presepe è una cristallina rappresentazione del bisogno di speranza che anima ciascuno di noi. Tutti ne abbiamo, anche quelli che fra noi non lo sanno. Piuttosto che temere di scandalizzare qualcuno, preoccupiamoci di non atrofizzare occhi e cuore perché resti viva in noi la sete di Eterno che ci abita.
Giovanni M. Capetta
(sir)
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