Si chiama “Chjanzon Dausine”, canzoni vicine, il secondo disco del cantautore della val di Rabbi Paolo Antonioni, che canta usando la lingua dialettale e che il 20 dicembre alle 17 alla Torraccia di Terzolas presenterà il suo nuovo lavoro.
Perché questo titolo? “All’interno ci sono canzoni che, seppur provenienti da diversi angoli d’Europa e degli Stati Uniti, sono state tradotte nella nostra parlata e quindi in qualche modo 'importate' nel nostro bagaglio culturale”, spiega il compositore che recentemente si è esibito anche alla presentazione del documentario “Fioi dal Nos” dell'associazione El Brenz, che punta molto sul recupero del dialetto.
Classe 1988, Antonioni si è laureato nel 2014 in Scienze della Comunicazione a Verona. Ha studiato un anno in Finlandia (a Oulu), d'estate lavora in un rifugio e in inverno, fa “la stagione”. Per il resto dell'anno, si dedica alla musica e alla fotografia.
Paolo, come è nata la tua passione per la musica?
“Sono sempre stato inconsciamente attratto dalla musica, anche se non ho ricevuto un'educazione musicale. Ho capito che quella sarebbe stata una parte importante della mia vita solo nel giugno del 2002, quando ho sentito per caso alla TV una vecchia canzone dei 'Rolling Stones': il loro primo singolo "Come On". È stato un colpo al cuore: come se una freccia scagliata dai confini del tempo e dello spazio mi avesse trapassato l'anima, come se avessi capito d'un tratto chi ero veramente e che la vita che avevo vissuto fino ad allora non mi apparteneva.
Da li il passo è stato breve: su una chitarra classica in prestito ho imparato i primi accordi. A 15 anni, dopo aver lavorato la mia prima stagione estiva in rifugio ho acquistato la mia prima chitarra elettrica. Un anno più tardi ho fondato una band con alcuni amici.”
Perché canti in dialetto?
“Non so perché abbia cominciato a cantare in 'dialetto'. Ci sono probabilmente molte ragioni. La principale è senza dubbio che la lingua rabbiese è la mia madrelingua. Durante la mia adolescenza ho incontrato delle persone che avevano già approfondito l'argomento e che quindi mi hanno raccontato delle parlate affini alla nostra: romancio, ladino, furla). Avendo poi girato molto l'Europa ed in particolare la Scandinavia sono entrato in contatto con alcune minoranze linguistiche e questo mi ha fatto riflettere sulla mia propria lingua e cultura. Andando alla ricerca dell'origine della nostra parlata ho poi scoperto che essa è tra i più antichi idiomi dell'arco alpino seppur spesso degradata e schernita.
E così hai deciso di metterla in musica…
“Il sogno era forse quello di darle una certa dignità letteraria, ma anche quello di fare qualche cosa che potesse essere 'vivo', non rinchiuso nelle pagine di un dizionario. La prima canzone, 'La chjanzon dla Matelô dla Janô', è arrivata però per caso in una tiepida notte di inizio estate, ascoltando il torrente con due cari amici. Con questa canzone ho partecipato all'edizione del SUNS 2013 senza essere selezionato. Qualcosa era però cominciato e doveva essere portato a termine”.
E hai cominciato a lavorare sul tuo primo disco.
“Il mio lavoro precedente è in due versioni: 'Blainch & Nejer', in rabiés, e "Black & White", in inglese. All'interno ci sono solo pezzi di mia produzione e sono stati entrambi registrati a casa, con un Olympus ls-100 ed il più economico microfono che potessi trovare a Trento”.
Come descrivi questo tuo secondo lavoro?
“Quest'ultimo disco è un disco d'apertura. Mentre prima ho curato ogni singolo aspetto della produzione, dalla composizione dei pezzi alla grafica e al pagamento, con 'Chjanzon Dausine' mi sono aperto alle collaborazioni. Non è stato sempre facile, ma ci siamo riusciti e sono soddisfatto del risultato. Non so cosa aspettarmi, questo è un disco molto diverso dal precedente nella sua propria natura e quindi non so che reazione il pubblico possa avere. Sono soddisfatto dell'opera e sono felice di potermi concentrare sulla prossima”.
Lascia una recensione