“C’era una volta la pellagra”. Sembra il classico incipit di ogni favola per bambini. Invece è il richiamo alla grande sventura che assieme all’emigrazione colpì le campagne italiane tra Settecento e primi decenni del Novecento. La pellagra era una malattia legata a un regime alimentare poverissimo, dove il consumo prevalente, sotto forma di polenta o di pane, era costituito dalla farina di granoturco (il mais, nome scientifico Zea mays). La malattia – che nella fase terminale portava alla pazzia (spesso pellagrosari e manicomi erano contigui) – era indagata con i mezzi debolissimi delle conoscenze del tempo e contrastata con accorgimenti (come i forni per una corretta cottura del pane) del tutto inadeguati. Scomparve quando, dopo il primo conflitto mondiale, l’alimentazione cambiò radicalmente.
La vicenda sembra appartenere a un passato da dimenticare, ma sarebbe un errore. Lo evidenzia e lo argomenta il libro edito dalla Fondazione Ivo De Carneri e da La Vita Felice “Zea mays. Mais e pellagra nel Nord Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento”, che verrà presentato venerdì 27 novembre alle 18 presso la Biblioteca civica di Rovereto in corso Bettini 43, con interventi di Valeria Carozzi, Andrea Leonardi, Cinzia Lorandini, Sandro Feller, Sergio Zaninelli.
La pellagra ha una storia che rivela profonde connessioni con l’economia, la società e la politica del tempo. Ecco perché è attuale parlarne, al di là di una mera curiosità culturale: perché su scala planetaria siamo oggi di nuovo di fronte a squilibri tra abbondanza e scarsità (leggi fame), tra alimenti che giovano e alimenti che danneggiano la salute. Il cibo si riconferma come il nesso vitale tra l’uso della terra e la nutrizione e quindi la vita dell’uomo. Ritornare alla pellagra offre spunti di riflessione quanto mai attuali.
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