Un vescovo sul metrò nell’ora di punta. Spintonato, non sa dove mettere la mano e allora chiede appoggio ai vicini per non cadere. Quest’episodio ha fatto pensare a Papa Francesco che, “oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo è la sua gente”.
Molti delegati qui a Firenze si sono ritrovati spontaneamente a ripensare a quest’aneddoto inserito nello storico discorso del Papa martedì 10 novembre non solo perché anche sui pullman del caotico traffico fiorentino i vescovi erano mescolati e “sorretti” dai laici. L’immagine esprimeva meglio di un trattato di teologia quel richiamo alla concretezza dell’umanesimo cristiano che ha percorso “la scossa del Papa” alla Chiesa italiana.
Che significhi concretezza Francesco lo ha indicato con i suoi gesti – l’abbraccio ai malati a Prato, il pranzo col tesserino alla mensa della Caritas, il grazie ai carcerati che gli avevano costruito l’altare – e con l’affermazione decisa che il cristiano non deve fermarsi ai principi morali e teologici: “La dottrina cristiana – ha scandito dal pulpito di Santa Maria del Fiore – non è un sistema chiuso, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo”.
Agli operatori laici come ai vertici della Cei, il Papa raccomanda dunque di non perdersi in astrazioni parolaie (le tentazioni storiche del pelagianesimo e dello gnosticismo), ma di farsi caritatevoli nella scelta dei poveri e coraggiosi nello “sporcarsi” dentro il dialogo sociale e politico. Anche l’evocazione del parroco di fantasia don Camillo rende bene popolarità, vicinanza alla gente, schiettezza, dialogo autentico (non “negoziato”) che sono le precondizioni della concretezza.
Ma non si tratta di un atteggiamento esteriore, sempliciotto: parte dalla “sana inquietudine” che ci mette dentro ogni pagina della Parola di Dio e che deve generare “una Chiesa inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, agli imperfetti”. E insieme, per Bergoglio, “Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà”.
Già nel maggio scorso all’assemblea della Cei Francesco aveva messo in guardia dall’astrattezza autoreferenziale (“si organizza un convegno o un evento che, mettendo in evidenza le solite voci – era stato il suo esempio concreto – narcotizza le comunità, omologando scelte, opinioni e persone”), ma qui a Firenze ha trovato l’applauso più convinto dei delegati, decisi a sottoporre alla valutazione di concretezza il percorso d’impronta sinodale sulle cinque vie della Evangelii Gaudium riaffidate dal Papa a tutti gli italiani.
“Dovremo passare da una pastorale delle strutture a una pastorale delle persone” ha riecheggiato subito il teologo Giuseppe Lorizio, mentre il sociologo Mauro Magatti, padre di sei figli, ha osservato che la logica della concretezza, pratica di amore aperta alla trascendenza, consente di ricomporre ciò che oggi è frammentato nella vita, nella famiglia, nella città, nel lavoro, nell’economia e nella politica.
Riuscirà la “rivoluzione della concretezza” nella Chiesa italiana? Lo diranno le conclusioni fiorentine, il cammino sinodale rilanciato nelle parrocchie e nelle diocesi, e molto potrebbe cambiare. E ci sarà da divertirsi visto che – con un accenno inedito all’humour – Francesco ci ha detto che “l’umanesimo cristiano fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura”.
Lascia una recensione