“C’è un colore che domina nei ricordi della guerra, ed è quello del fango, quasi gli uomini fossero costretti a farsi fango, a rompere la terra, a ridurre la propria umanità per non vedere la morte che riempie gli occhi”.
Tra i molti stimoli di studio e riflessione per ricordare la prima guerra mondiale nelle rievocazioni del suo centenario, sono frequenti gli appuntamenti che affrontano l'argomento sotto le angolature d'ambito storico, militare, sociale, o le analisi politiche del “prima” e del “poi”. E' perciò benvenuta un'iniziativa come quella della società “Dante Alighieri” di Trento, che martedì 10 novembre alle ore 17 ospiterà una conferenza della poetessa e studiosa Nadia Scappini sul tema dei poeti e degli scrittori al fronte nella prima guerra mondiale.
Molti ricordano alcuni immortali versi di Giuseppe Ungaretti: “Ma nel cuore / nessuna croce manca. // E' il mio cuore / il paese più straziato”. Esprimono l'acuto dolore dei moltissimi giovani poeti e scrittori in tutta Europa e nel mondo (da Rebora, da Lussu, da Musil ad Hemingway) che presero parte a un'esperienza drammatica, che rappresentò per tutti loro – interventisti o meno – una forma di inimmaginabile e sfibrante sofferenza.
“Quando ho iniziato a preparare questo intervento” ci ha detto Nadia Scappini, “ero consapevole di dovermi inoltrare in un percorso dolente, ma non avrei pensato tanto. Certo è che la guerra è entrata prepotentemente, anzi penetrata nelle pagine, nelle tele, nella musica degli artisti che vi hanno partecipato. Per quanto riguarda l’ambito letterario, diverse sono state le forme di scrittura, i tempi di elaborazione della memoria, i rapporti complessi “con il nemico”. Personalmente ho scelto di privilegiare la forma più sintetica, densa, alta di scrittura: la poesia”. L’analisi della studiosa si volgerà all’ambito europeo e trarrà il titolo, “La poesia del dolore fraterno”, da un sentimento diffuso nelle testimonianze dei poeti: nella tesi che la sofferenza disumana del fronte oltrepassi qualsiasi idea di nemico.
“C’è un colore che domina nei ricordi della guerra” ci ha detto ancora Nadia Scappini, “ed è quello del fango, quasi gli uomini fossero costretti a farsi fango, a rompere la terra, a ridurre la propria umanità per non vedere la morte che riempie gli occhi. Questo riecheggia con estremo realismo in un testo di Clemente Rebora, “Viatico”, dove, addirittura, il poeta arriva a pregare un «ferito laggiù nel valloncello» di affrettare la sua agonia e il suo lamento, perché ferisce i commilitoni che l’ascoltano e non possono andare a salvarlo: già “tre compagni interi / cadder per te che quasi più non eri, / tra melma e sangue / tronco senza gambe”.
L'austriaco Georg Trakl cantò: “La notte abbraccia / guerrieri morenti, il furioso lamento / delle loro bocche in frantumi”; mentre l'inglese Wilfred Owen, che morì una settimana prima che il conflitto terminasse, così auspicava: “Sognai che il buon Gesù aveva sabotato / gli ingranaggi dei grossi pezzi di artiglieria / e inceppato in modo irreparabile / tutti gli otturatori”. Versi di protesta e disperazione di una generazione a cui la “grande guerra” frantumò i sogni della gioventù.
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