Aumentano i conflitti nel mondo e cresce il mercato della compravendita di sistemi d'arma. Il ruolo dell'Italia, che vende armi verso i paesi in stato di conflitto
Parlando davanti al Congresso degli Stati Uniti d’America, Papa Francesco ha esortato a fermare il traffico di armi. Non è la prima volta. Perché questa insistenza? Lo chiediamo a Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Difesa e Sicurezza (Opal) di Brescia e della Rete Italiana per il Disarmo.
In numerose occasioni papa Francesco ha puntato l’attenzione sui “fabbricanti di armi che sono mercanti di morte” evidenziando come “tante persone potenti non vogliono la pace perché vivono delle guerre attraverso l’industria delle armi”. L’insistenza del papa non è rivolta – e questa è una novità rilevante proprio nel discorso al Congresso – solo a fermare i traffici illegali di armi, ma l’intero commercio di armamenti. Non è un caso che il papa abbia scelto il Congresso Usa per questo suo appello: gli Stati Uniti sono infatti il maggior produttore e esportatore mondiale di armi e sistemi militari e, come noto, non hanno ratificato diversi trattati internazionali da quello di Ottawa per la messa al bando delle mine antipersona a quello di Oslo per l’eliminazione della bombe a grappolo fino a quello recente proprio sul commercio di armi.
Nel 2014 sono aumentati i conflitti nel mondo ed è cresciuto il mercato della compravendita di armi e armamenti, segnala l’ultimo rapporto di Caritas Italiana. Dove sono indirizzati oggi i traffici più consistenti?
Dobbiamo sempre porre attenzione a non confondere il traffico illegale con il “commercio legale” delle armi (legale solo perché è autorizzato dai singoli Stati). Al di là di questa fondamentale distinzione rimane infatti il problema centrale: pur essendo finalmente entrato in vigore lo scorso 24 dicembre il Trattato internazionale sul commercio di armi (Arms Trade Treaty) le principali nazioni produttrici di armi non lo hanno firmato (Russia, Cina, India, ecc.) mentre Stati Uniti, Israele e Ucraina, pur avendolo firmato, non lo hanno ratificato. Tutto questo, insieme alla poca trasparenza, finisce per favorire quella “zona grigia” fatta di triangolazioni e trasferimenti illeciti in cui si inseriscono i mercanti di armi. Come evidenzia un’importante risoluzione delle Nazioni Unite “l’assenza di uno standard comune internazionale sull’importazione, l’esportazione e il trasferimento di armamenti convenzionali è un fattore che contribuisce ai conflitti, allo sfollamento di persone, al crimine e al terrorismo e di conseguenza minaccia la pace, la riconciliazione, la sicurezza, la stabilità e lo sviluppo sostenibile” (Risoluzione Onu 61/89 del 6 Dicembre 2006). Papa Francesco definisce tutto questo “la terza guerra mondiale a pezzi”.
Che ruolo gioca l’Unione europea, come si colloca l’Italia in questo contesto?
Da diversi anni l’Italia è tra i primi otto paesi nel mondo per esportazioni di sistemi militari e al primo posto nell’export di piccole armi comuni, non militari. Ma se sommati a quelle degli altri paesi dell’Unione europea, le esportazioni internazionali di armamenti dell’Ue sono praticamente alla pari di quelle degli Stati Uniti e della Russia. Da qui la grande responsabilità dei paesi dell’Unione che – grazie all’ampia mobilitazione della società civile – hanno firmato e ratificato il Trattato dell’Onu sul commercio di armi. La normativa europea, invece, pur essendo buona è però debole.
L’Italia già dal 1990 si è data una legge, la n. 185, che ha introdotto elementi di trasparenza sull’export di armi.
E’ stato un grande merito della mobilitazione promossa fin dagli anni Ottanta dalle associazioni, soprattutto cattoliche. Ma dal 1990 ad oggi, la costante e occulta azione dell’industria militare ha prodotto una continua erosione della trasparenza: dalla relazione inviata al parlamento dal governo si può sapere solo l’ammontare complessivo dei valori e il generico sistema militare (navi, aerei, veicoli, bombe ecc.) esportati ai singoli paesi. Anche il parlamento è andato esercitando un ruolo sempre più marginale.
Prima faceva notare che le esportazioni di armamenti italiani sono sempre più dirette verso le zone di tensione del mondo: come è possibile considerato che la legge impedisce espressamente esportazioni di armi in contrasto con la Costituzione e verso i paesi in stato di conflitto armato?
Nell’ultimo quinquennio si nota un trend in crescita di esportazioni proprio verso le aree di maggior tensione del mondo come il Medio Oriente e l’Asia. Tutto questo avviene perché non si ha intenzione di rivedere radicalmente la funzione dell’industria militare, nazionale ed europea. E la crisi economica ha trasformato diversi ministri della Difesa europei in espliciti promotori delle esportazioni di sistemi militari.
L’ultimo caso segnalato da Opal, Rete Disarmo e Amnesty International Italia riguarda il conflitto in Yemen: al governo avete chiesto di interrompere l’invio di bombe e sistemi militari ai Paesi della coalizione guidata dall’Arabia Saudita che senza mandato internazionale dallo scorso marzo bombarda lo Yemen. Qual è stata la risposta (se c’è stata)?
Il conflitto ha già causato più di 4 mila morti e 20 mila feriti – di cui circa la metà tra la popolazione civile: una “catastrofe umanitaria” con oltre un milione di sfollati e 21 milioni di persone che necessitano di urgenti aiuti. Tra le bombe aree utilizzate dai sauditi ve ne sono anche diverse prodotte nel nostro paese dalla RWM Italia, azienda che fa parte del gruppo tedesco Rheinmetall. Insieme a Amnesty Italia, abbiamo chiesto al governo di sospendere immediatamente l’invio di queste bombe e di tutti i sistemi d’armamento ai paesi coinvolti in questa azione militare: finora però non abbiamo avuto alcuna risposta.
Rispetto a questo conflitto, qual è la posizione europea?
Non vi è stata una presa di posizione europea, ma nel giorno dell’intervento militare della coalizione saudita l’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini ha preso chiaramente le distanze affermando che “l’azione militare non è la soluzione”. Alcuni paesi europei – tra cui Germania e Svezia – avevano già sospeso e cancellato importanti contratti militari con l’Arabia Saudita.
Il 23 settembre scorso una delegazione della Rete italiana per il disarmo ha incontrato alla Farnesina il sottosegretario agli Affari Esteri e alla Cooperazione internazionale, sen. Benedetto Della Vedova. C’era anche lei in rappresentanza di Opal. Che temi avete affrontato?
Abbiamo segnalato il problema della scarsa trasparenza della Relazione annuale della Presidenza del Consiglio e abbiamo avanzato alcune proposte molto semplici, concrete e fattibili, per migliorare il livello di conoscenza delle operazioni autorizzate. Vedremo nei prossimi mesi se vi saranno miglioramenti.
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