Uno sguardo sul reale, sull'esistente ha fatto da filo conduttore alle opere presentate in concorso al Festival Veneziano, tra denunce sui drammi di oggi e colpe della storia passata.
Una Mostra cinematografica che ha segnato la fusione tra cinema e documentario, perché il cinema è racconto della realtà. “E’ la realtà – spiega il direttore della manifestazione veneziana Alberto Barbera – a farsi protagonista nelle sue diverse forme”. C’è meno capacità di inventare e una maggiore capacità di rielaborare la realtà, per immergersi in essa e sperimentarne emozioni e sacrifici. Storie dagli accenti tragici e costruttivi insieme, appassionati o di gelida comunicazione, quotidianità che si fa storia condivisa. Si riflette sul passato come accade in Francofonia, il singolare film di Sokurov in cui l’Arte si eleva a conciliare ideologie avvelenate dall’odio. Si portano alla ribalta drammi d’oggi come in Beats of no nation (i bambini soldato in Uganda). Con la proiezione di Rubin, the Last Day di Amos Citai, si condanna con fermezza un sionismo esasperato e fanatico auspicando l’armonia in Medio Oriente. Trovano spazio le grandi tragedie della storia come nel lavoro dell’armeno Atom Egoyan “Remember”, in cui il vecchio Zen è alla ricerca del nazista che gli ha sterminato la famiglia. Il film del cinese Liang Zhao Behemoth – invocato dai più per il Leone D’oro ed insignito del premio Signis – è un immenso faro che illumina il limite dello sfruttamento dell’uomo in nome dell’interesse economico. Un film di rara potenza filmica che si cala nell’inferno del lavoro dei minatori e del loro respiro minato dai veleni delle polveri tossiche.
Per la prima volta alla Mostra di Venezia un film realizzato a Città del Vaticano. L’esercito più piccolo del mondo del regista Gianfranco Pannone è un insieme di immagini felici e colorate di una esuberanza esistenziale affidate a domande e risposte dei soldati pontifici che indossano oggi un abito immutabile da 5oo anni. Il racconto di un mondo vitale dentro una cornice fondata su tradizioni antiche.
A sorpresa si aggiudica il Leone d’oro Desde Allà di Lorenzo Vigas, film dalla tematica scabrosa e accolto senza entusiasmo da critica e pubblico. Il protagonista Armando soffre di un vuoto affettivo dovuto a un trauma giovanile e lo risolve adescando in maniera originale i ragazzi, limitandosi però a osservarli da lontano. Un racconto fuori dagli schemi, con un complicato intreccio psicologico che alterna attenzioni a conflitti vendicativi che impoveriscono il rapporto.
Il Leone d’Argento per la miglior regia va a Pablo Trapero per El Clan. Siamo negli anni della dittatura militare argentina tra il 1976 e il 1983 con tre mila desaparecidos torturati e uccisi e il capo dei servizi segreti approfitta della sua immunità per compiere rapimenti, violenze e omicidi. Un lavoro filmico girato alla maniera di una ganster story, con esuberanza e incisività d’azione.
Poco riescono ad emozionare i “nostri”. Pietro Messina con L’Attesa riesce ad immortalare la natura della Sicilia con le sue luci e le sue aspre bellezze: ma risulta un film troppo simbolico, difficile.
Raccoglie l’entusiasmo della critica ma nessun riconoscimento l’attesissimo Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio. Ma l’unico premio lo porta a casa Valeria Golino, Premio Volpi per la migliore interpretazione femminile in Per amore vostro di Giuseppe Gaudini. Un film ricco di spunti con momenti di alta sensibilità tra figli e madre, assunta quest’ultima a icona dell’amore incondizionato.
La dirompente recitazione di Fabrice Luchini si merita la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile nel film di Christian Vincente L’Hermine (premiato anche per la miglior sceneggiatura).
Il film Beats of No Nation di Cary Joji Fukunaga meritava forse qualcosa in più. E’ valso comunque il Premio Mastroianni, destinato a giovani attori emergenti, a Abraham Attah.
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