Gli viene voglia di camminare, di cercare nell’alto della città, come per recuperare il tempo perduto e ritrovare del nuovo nel vecchio
Sta ancora sotto la tettoia della stazione, ha sentito ripartire il treno. Non è facile essere ritornato nella propria città, dopo trent’anni di volontario ‘esilio’, vissuti come una scelta di protesta e di avventura, mandando all’aria laurea, famiglia, amici ed abitudini: così, dopo tutto questo tempo consumato nella illusione di cercare il nuovo e l’autentico, di scoprire l’essere e la libertà, Mario Alberti si ritrova sempre di più abbandonato a se stesso. Certe vicende non si possono spiegare, si può solo narrarle in quanto rappresentano un evento di libertà.
Giunge una musica dai Giardini Pubblici antistanti. La grande statua di Dante gli indica col braccio teso una direzione, lo fa con bonomia dall’alto del piedistallo di pietra rosa difeso da Minosse. La solitudine non cambia. Ma ecco, c’è uno che si avvicina, Dino, e lo saluta: “Ciao, Mario, sono passati tanti anni! Ti vedo bene… Debbo scappare via, però ci possiamo ritrovare”. E subito aggiunge che: “sono invitato a Milano per partecipare ad un congresso di Neonatologia, lavoro ancora, sai, a fare del bene agli altri un poco ti ritorna indietro…”. Un saluto affettuoso e Dino corre a prendere il suo treno, in giro è stimato perché ha cercato di dare una buona impronta a coloro che vengono al mondo.
L’esule attraversa le piazzole e le strade dei Giardini ravvivati dal primo sole e dalla musica nell’aria, ancora pochi i bambini, qualche signora con la borsa della spesa, i cani al guinzaglio perlustrano con discrezione, una coppia di anziani amoreggia discreta su una panchina sullo sfondo delle siepi e degli arbusti fioriti. Eccoli lì quelli della band musicale, lo portano scritto sulle magliette Curly Frog and the Blues Bringers, le melodie trapassano l’aria, il verde sembra rinvigorirsi, un mondo nuovo e diverso di suoni viene incontro. Lui accostandosi li saluta. E gli altri rispondono, la musica sa vincere gli anni e le distanze. Quello del flauto adesso si mette a cantare, il Gaudeamus igitur, sembra lo faccia apposta per lui, grazie ragazzo! conserva il tuo bel viso, gli occhi luminosi, anche quella riga di baffetti e la criniera nera da sparviero.
Alberti è già lontano, cammina a caso senza una meta, le strade sono state pulite nella notte, arriva alla chiesa di Santa Maria Maggiore dalla facciata bianca e rossa che riflette le armonie rinascimentali, un suono importante di organo sembra uscire dalla navata; sul fronte opposto della piazza una cappella coi ricordi di una antica gloria. La via, adesso, pare la pista per una gara di automezzi, i pedoni sulla difensiva, ma tutti trafficano, che cosa staranno cercando? di cambiare la vita? di scoprire la felicità? O soltanto di guadagnare un giorno.
Quello che gli viene incontro non è Gianpaolo? l’amico, il compagno del Liceo Prati divenuto politologo: sembra rimasto il solito, gli occhialoni, un viso da ricercatore universitario, lo sguardo che sorride facile, ancora la sua zazzera. Alberti subito lo ferma, allargandogli contro le braccia. “Proprio qui sotto dovevamo incontrarci! E dopo quanti anni, Mario? Rispondi, dimmi qualche cosa”, gli fa Gianpaolo con entusiasmo. “Qui sotto?”. “Non mi dirai che non ti ricordi che assieme frequentavamo questo caseggiato, dove allora si stampava ‘l’Adige’, il Direttore Flam… Piccoli, che aveva simpatia per te e ti chiamava il filosofo…”. “Flaminio è stato un grande uomo, intuitivo, creativo, disponibile…”. “Dopo la lezione di Cesare Battisti e di Alcide De Gasperi la classe politica del Trentino s’è fatta onore”. Girano l’angolo e in fondo alla via compare la facciata grigio rosea della Cattedrale, maestosa, invitante. “Molto dipende da lì!” sbotta Gianpaolo segnandola. “Il Concilio?” domanda ironico Mario. “Anche. Resto convinto che sull’umanità gravi un destino di espiazione e che solo attraverso la trascendenza la storia si diriga verso la salvezza”. Sembra la sortita per un colto commiato e lo è: gentile Gianpaolo si allontana non senza le solite promesse.
Mario Alberti si ferma davanti al Palazzo della Filarmonica, non gli interessa tanto lo stile rinascimento veneziano, il bugnato, il balcone della facciata col suo frontone triangolare. Guarda il portone di entrata in rovere scuro: ripensa che proprio di lì entrava ed usciva Franca Salvi, la violinista rossa da lui amata senza esserne ricambiato se non dalla sua straordinaria presenza; alta, flessuosa, intrigante, si esprimeva anche col camminare; ma quando suonava il suo viso si trasformava in quello di un angelo e la musica conquistava ogni ascoltatore, nella doppia arte, quella dello spartito e quella della esecuzione; purtroppo morta giovane, quasi col violino tra le mani, il male non rispetta certo la bravura e neanche la bellezza; dopo, soltanto il ricordare rimedia in qualche modo alla morte. Il portone rimane ostinatamente chiuso, nessuna traccia di capelli rossodorati.
Nella vicina piazzetta Adamo d’Arogno, oltre ai bambini d’ogni colore che giocano allegri e si rincorrono sull’acciottolato, si aspetta di ritrovare il ‘Barbone muto’, così come lo ricorda, grosso e duro, gli occhi bianchi, la rabbia a fior di pelle; sparito anche lui, come non ci sono più tracce dei preti lungo le basse e antiche case del Clero o dell’avvocato vincicause Michele, che spesso sorrideva dal balcone, sempre con la sigaretta accesa e magari un saluto.
Sta cambiando tutta la storia, ironizza l’’esule’, risultano stravolti i personaggi e le vicende, forse per questo lui è ritornato in città: per capire se gli siano rimaste almeno la fede e la fantasia. Si tratta di un pellegrinaggio teso a cercare nel presente le stigmate del passato o a chiedersi se nella vita dell’uomo esista un modo per prepararsi meglio al futuro; sempre una storia di salvezza. Ecco perché conta anche il Palazzo del Liceo Prati, ex convento delle Clarisse della SS Trinità, nel porticato del quale adesso si ritrova. Sono passate le generazioni, eppure gli ritornano in mente i compagni, la sua classe, che era al primo piano, proprio di fianco alla Chiesa della SS Trinità, tutti gli sembrano essere stati bravi ed intelligenti, comprensivi e disponibili, in quel periodo così, fertile e creativo. Riaverne davanti almeno uno! il medico, il farmacista, il fisico, lo scrittore, il funzionario… la dotta, l’insegnante, l’estetista e, perché no? la più bella, Elli: al suono dell’ultimo campanello lei infilava di corsa le scale per riabbracciare il suo uomo di sempre, che l’aspettava giù sulla via, una coppia inseparabile ed invidiata, che dava gioia solo a guardarla. A Mario Alberti basterebbe rivedere il professor Lackner, Preside, grecista, filologo, uomo severo e buono.
Decide di percorrere via San Giovanni Bosco, solo per toccare la sede del settimanale ‘Vita Trentina’ nella illusione di vedersi ricomparire davanti monsignor Delugan, chiaro, ascetico, la voce che ti mette a tuo agio anche se arrivasse il vento della discordia e la tempesta del cercare, proprio una di quelle figure nate per convincerti sul bene, uno che non può altro che esserti amico per sempre.
Un’altra ex sede di giornale, quello che adesso è diventato ‘Il Trentino’: si aspetta quasi che scendano in piazza Lodron due firme storiche, due esemplari unici, Franco de Battaglia, ancora attivo nell’editoria e Luigino Mattei, che insieme hanno arricchito l’originale spettro del giornalismo in regione.
Gli viene voglia di camminare, di cercare nell’alto della città, come per recuperare il tempo perduto e ritrovare del nuovo nel vecchio. Attraversa ancora giardini cintati da siepi e da antichi alberi. Adesso la salita, i tornanti della Cervara verso via Muralta, la piazza dei Cappuccini, quella strana nuova chiesa e, appena al di qua, un boschetto pensile con panchine, una grande Croce di pietra, la fontana attorno alla quale si dissetano e si lavano alcuni viandanti e qualche extracomunitario. Mario sceglie una panchina e si va a sedere accanto ad un vecchio ‘giallo’, che continua a parlottare in una lingua sconosciuta alla bottiglia di birra che tiene in mano.
Poco dopo mezzogiorno una campanella sembra chiamare quelli che stanno aspettando lì intorno e che potrebbero costituire gli ospiti fissi di una Mensa; compare un fraticello ancora immerso in un bagno di fatica e di sudore, conosce tutti, li chiama uno per uno, a Mario si rivolge gentile: “Venga anche lei…”. Non ci si può tirare indietro quando un invito riguarda il cibo e la terra.
Nel refettorio avverte subito un sapore di casa, gli estranei gli appaiono vicini ed imparentati, del resto quella che è stata la sua città perché non dovrebbe diventare l’accogliente città di tutti, bandendo i tempi dell’asprezza e della separazione. Si sta profilando un lieto fine dopo l’angoscia della storia: stanno lì insieme a consumare l’offerta dei Frati.
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