I 150 anni dalla conquista della vetta. Una scalata ricca di retroscena politici, ricostruita dallo storico Pietro Crivellaro]
[Un piano patriottico orchestrato da Quintino Sella per replicare all’invadenza degli inglesi dell’Alpine Club, che anticipò l’immenso ruolo politico dell’alpinismo e dello sport nel processo risorgimentale
Gli anniversari rappresentano sempre più spesso (e non sempre a proposito) l’occasione per riletture e revisioni di fatti, avvenimenti e contesti che hanno segnato la storia e le memorie, personali e collettive, di generazioni e territori. La storia legata all’ambiente montano e all’alpinismo non fa eccezione a questo assioma.
Recenti acquisizioni documentarie e storiografiche hanno posto in evidenza come la storia della conquista del Cervino, di cui il 14 luglio si celebrano i 150 anni, è più complessa dell’epico romanzo solitamente tramandato. La vittoriosa scalata dell’alpinista britannico Edward Whymper (costata però quattro morti) dal versante svizzero, fu seguita tre giorni dopo dalla salita della guida valdostana Jean Antoine Carrel dalle creste su territorio italiano. Lo storico dell’alpinismo Pietro Crivellaro ha sapientemente ricostruito questa storia insieme con Lodovico Sella in un saggio intitolato “Quintino Sella e la battaglia del Cervino”, recentemente pubblicato nel volume edito dal CNR “Gli archivi e la montagna”.
Alla base un appassionante carteggio di una cinquantina di lettere scritte e ricevute da Quintino Sella, protagonista della storia politica dell’Italia risorgimentale, ma anche valente alpinista e fondatore del CAI. “I documenti dimostrano”, spiega Crivellaro, “che il progetto del Cervino appartiene a un unico piano patriottico per replicare all’invadenza degli inglesi dell’Alpine Club, inaugurato dalla ‘riconquista’ italiana del Monviso capitanata da Sella nell’estate 1863 e consolidato il 23 ottobre di quell’anno dalla fondazione del Club Alpino Italiano”.
Una scalata dunque ricca di retroscena politici, che ebbero come attento regista lo statista biellese, deciso ad impedire che una vetta tanto simbolica ed ambita fosse salita dagli Inglesi, a discapito dell’immagine del neonato Regno d’Italia. Retroscena che anticipano l’immenso ruolo politico che l’alpinismo e lo sport avrebbe assunto di lì a poco a sostegno del processo risorgimentale.
Scalate e sodalizi che – in nome della montagna – miravano a unire idealmente il Paese, dal Monte Bianco all’Etna, ed erano destinati ad influire in maniera significativa e per lungo tempo sulle vicende politiche nazionali.
Suggestioni che portano a riflettere in maniera particolare su questo periodo storico in rapporto alla montagna. Pensiamo all’origine dell’esplorazione della zona dolomitica (recentemente ricostruita in tre pregevoli volumi, curati da Fabrizio Torchio e Riccardo Decarli, dal titolo “Ad Est del Romanticismo”), con eventi destinati a far nascere nella zona dei “Monti pallidi” un movimento del tutto nuovo, vocato alla perlustrazione di territori fino ad allora osservati solo dal basso e con timorosa riverenza dalle genti di montagna. Nel 1864 John Ball, presidente dell’Alpine Club di Londra, attraversava per la prima volta la Bocca di Brenta. Paul Grohmann effettuava la prima ascensione della Punta Penia in Marmolada, del Sorapiss, della Tofana di Ròzes, del Piz Boè nel gruppo del Sella.
Nei vicini anfiteatri glaciali dell’area tirolese, Douglas William Freshfield saliva la Cima Presanella e Julius von Payer l’Adamello. Di Francis Fox Tuckett la prima salita del Gran Zebrù.
Nello stesso periodo si assisteva alla nascita dei primi club alpini nazionali (e della Società Alpina del Trentino, antesignana della SAT), delle prime forme di turismo organizzato e di alcune delle più rinomate località di soggiorno delle Alpi; alla tracciatura di grandi itinerari alpinistici ed escursionistici e alla costruzione di rifugi; alla nascita di nuove professioni come la guida alpina e l’albergatore di montagna; alla fioritura di una variegata pubblicistica e di una fiorente letteratura di settore.
Maurizio Gentilini
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