C’è un popolo, quello dei Saharawi, che attende da quarant’anni, nel deserto, il momento in cui potrà tornare nella sua terra, il Sahara Occidentale, attualmente occupata dal Marocco. Il deserto dell’Hammada non è un luogo ospitale. “L’acqua c’è, ma non è potabile”, racconta Fatima Mahfoud, vice-rappresentante della Repubblica Araba Saharawi Democratica.
Ad ascoltarla, un pubblico attento in una serata, quella di mercoledì 24 giugno, proposta dall’associazione “Tempora Onlus” e organizzata dalla Pro Loco con l'aiuto di Tennattiva, dei vigili del fuoco e degli alpini di Tenna. Lo scenario, quello del forte di Tenna.
“Ringrazio Tempora perché, per resistere quarant’anni in un deserto, ci vuole dell’acqua potabile”, riprende Fatima, riferendosi al progetto Sun Water, realizzato proprio dalla Onlus con il sostegno della Provincia, della Regione e del Comune di Trento. E la serata, “Acqua Forte di Vita”, è stata pensata come momento conclusivo del progetto, che ha visto la realizzazione di due impianti di purificazione dell’acqua alimentati ad energia solare, con impatto ambientale zero, nelle località di Tiffariti e Bir Lelou, nel Sahara Occidentale.
Loredana Camin, vicesindaco del comune di Tenna, spiega la scelta del titolo “Acqua Forte di Vita”. Forte perché il forte di Tenna è stato dotato dagli austroungarici di un sistema idraulico e di purificazione dell’acqua, per permettere ai soldati di usufruire dell’acqua potabile, e perché l’acqua termale di Levico e Vetriolo è così definita. “Acqua di Vita” perché l’acqua è un elemento essenziale per la vita, e può diventare fonte di aspre contese così come strumento di pace. Quest’ultimo è il caso del progetto Sun Water.
Giovanna Venditti, presidente di Tempora Onlus, ricorda come l'associazione si occupi in primo luogo di “progetti inerenti al tema dell’acqua, perché l’acqua è il primo diritto, il diritto alla vita, che non deve mancare a nessuno”. È Fatima Mahfoud a racconta la storia dei Saharawi. Il Sahara Occidentale, lasciato nel 1975 dalla Spagna, non ha subito un processo di decolonizzazione: per il diritto internazionale, è tuttora una colonia spagnola.
Il Paese iberico, per assicurarsi il controllo delle risorse del Sahara Occidentale – in particolare dei fosfati e delle coste pescose -, cerca un accordo con gli Stati confinanti, il Marocco, l’Algeria e la Mauritania, a cui solo l’Algeria rifiuta di prendere parte. Scoppia una guerra, che dura 16 anni e condanna all’esilio i Saharawi, che chiedono asilo all’Algeria.
I rifugiati sono 200 mila. Mentre la Mauritania rinuncia alle sue pretese nei confronti del Sahara Occidentale, il Marocco persiste nel tentativo di annettere quelle che chiama le “province del sud”. Nel 1991 la guerra è conclusa e le Nazioni Unite s’impegnano nella Minurso, ovverosia la “Missione delle Nazioni Unite per un referendum nel Sahara Occidentale”, perché la popolazione Saharawi, che conta circa 1 milione di abitanti, possa decidere se essere parte del Marocco o diventare finalmente indipendente. Ad oggi, questa missione non è ancora conclusa. Della guerra, invece, resta un segno tangibilissimo: un muro costruito dal Marocco che esclude i Saharawi dalla loro stessa terra.
“È stato fatto un investimento sull’educazione, unica arma contro povertà e intolleranza”, spiega Fatima. Il tasso d’alfabetizzazione dei Saharawi è del 95%: il più alto in tutta l’Africa. I Saharawi sono un popolo pacifico: non usano le bombe per rendere visibile il proprio dramma. “Noi, al massimo, mandiamo in giro i nostri bambini. Li chiamiamo ambasciatori di pace”, racconta Fatima. Dal 1982, bambini Saharawi vengono affidati, nel periodo estivo, a famiglie di Paesi come l’Italia. Ciononostante, i Saharawi sono determinati a non lasciare la loro terra d’origine.
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