I passi di Bergoglio nella città simbolo del conflitto etnico. Con tutte le ferite visibili del drammatico assedio. Ma anche la sfida di tornare ad essere la Gerusalemme dei Balcani
Era scavato solo qualche metro sotto l'aeroporto internazionale dove atterrerà, sabato 6 giugno, di buon mattino. Lì passava il tunnel della speranza negli anni dell’assedio serbo (1992-1995): oltre quella pista, presidiata dalle fatiscenti forze Onu, c’era e c'è Butmir, al tempo l'unica isola bosniaco-musulmana ove trovare riparo dalle granate serbe. Il problema era riuscire ad arrivare indenni all'imbocco di quegli ottocento metri. Oggi ne resta solo un pezzo, non più di trenta metri, trasformato in museo.
Prende le mosse a un tiro di schioppo da uno dei tanti memoriali dell’orrore, la visita di Papa Francesco a Sarajevo, città simbolo del conflitto balcanico. Esattamente diciotto anni dopo l’ultimo pontefice, Giovanni Paolo II (aprile 1997), la cui imponente statua eretta un anno fa domina la piazza della cattedrale cattolica intitolata al Sacro Cuore di Gesù. La chiesa sta quasi al limitare della Baščaršija, l'antico quartiere turco della capitale dell'islam europeo, fascinoso centro storico dove si ergono, in un fazzoletto di terra, oltre a quello della comunità cattolica (minoritaria), i simboli delle altre fedi che per secoli hanno convissuto in pace: le moschee della maggioranza musulmana, la cattedrale della consistente comunità ortodossa, la sinagoga ebraica ormai in uso a poche centinaia di fedeli ma immutabile testimone dell'accoglienza nell'Impero Ottomano dei sefarditi in fuga dalla Spagna nel XV secolo.
Subito dietro la cattedrale cattolica brulica il markale, il mercato all'aperto, con quei nomi scritti su sfondo rosso a ricordare una delle stragi di innocenti in cerca di un po' di normalità, in coda per pane e acqua. A vent'anni dalla fine della guerra etnica senza quartiere, la capitale bosniaca, sospesa costantemente tra architetture ottomane e asburgiche, prova a ridare di sé un'immagine accattivante: lo dimostrano i continui cantieri stradali che rendono difficoltoso l'accesso alla città o lo splendente Holiday Inn, l'albergo in cui alloggiava la stampa internazionale, emblema, con quelle pareti gialle annerite dalle esplosioni, di un assedio assurdo anche solo a provare a raccontarlo con i suoi dodicimila morti e cinquantamila feriti.
I segni restano però come cicatrici profonde: molte delle case attorno, di qua e di là della Miljacka, il fiume che taglia verticalmente la città, sono ancora una groviera di colpi, i fori solo talvolta ricoperti di intonaco. Poi giri l'occhio e volti ancora pagina: ecco il rinnovato palazzo presidenziale in cui il Papa incontrerà le autorità di un Paese complesso dove tre membri, esponenti di musulmani, serbi e croati, si alternano alla presidenza accanto a un alto rappresentante Onu, come prevedono gli accordi di Dayton del 1995.
La situazione è delicata, anche perché la politica (pesa la dolorosa frammentazione dello Stato di Bosnia in Federazione di Bosnia ed Erzegovina e Repubblica Srpska) va a braccetto con l'economia: la pace può reggersi solo sulla base di un sviluppo che tarda ad affermarsi, lasciando in difficoltà ampie fette della popolazione, indotta a frequenti proteste di piazza.
Dal viale principale, Bergoglio raggiungerà lo stadio Kosevo per la S. Messa. Vi affluiranno almeno sessantamila dei duecentomila cattolici rimasti nella diocesi di Sarajevo, per lo più di etnia croata: erano più del doppio prima della guerra, ci tiene a ricordare il cardinale Vinko Puljić, vescovo sarajevita che ha invitato il Papa e ora guiderà all'incontro con Francesco i suoi fedeli e la piccola conferenza episcopale di Bosnia, cinque vescovi in tutto. «Stiamo cercando la via della cooperazione e del dialogo. Il dialogo non ha alternative. L'alternativa è la guerra. Noi abbiamo avuto già troppe guerre», ha ricordato Puljić in un recente incontro promosso nella capitale bosniaca dal centro ecumenico Oasis. Precisando però: «Non c'è pace senza parità di diritti, senza un processo di perdono, di riconciliazione e di ristabilimento della fiducia».
Il Papa rilancerà ulteriormente l'urgenza del dialogo nell'incontro forse più atteso, quello con i capi delle altre fedi nel Centro internazionale studentesco francescano, nel tardo pomeriggio di sabato. Lungo il tragitto cittadino lo sguardo di Francesco finirà inevitabilmente sulle ampie macchie candide di cui sono costellate le colline della città, lapidi bianche ad uno sguardo più attento. Quasi tutte con la data di morte compresa in quel triste triennio da assediati. Anche uno dei parchi cittadini, quasi un cimitero disordinato, è dedicato alla memoria dei bambini vittime di guerra: nella speranza che da qui, dalla storica “Gerusalemme dei Balcani”, possa un giorno rifiorire davvero la piena convivenza. Ci credeva anche Moreno Locatelli, l'italiano colpito da un cecchino sul ponte Vrbanja, nel 1993. E pensare che era andato a Sarajevo solo per chiedere “Mir sada!”, “Pace subito!”.
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