Il segno di speranza che viene dagli sposi

Da un discorso “sulle” famiglie fragili occorre passare a un discorso “a partire dalla fragilità”, in un approccio che privilegi l’ascolto sul giudizio

Nell’Atto Primo, Scena Terza della splendida trasposizione lirica dell’Otello di Shakespeare, Arrigo Boito e Giuseppe Verdi mettono in bocca a Otello e Desdemona queste parole: «E tu m’amavi per le mie sventure, ed io t’amavo per la tua pietà/E io t’amavo per le tue sventure, e tu m’amavi per la mia pietà».

Sono parole che bene esprimono due modelli ideali dell’amore, in apparenza opposti nelle loro intenzionalità, ma di fatto convergenti negli esiti: l’amore oblativo («tu m’amavi per le mie sventure»), che rappresenta l’amore dell’altro/a che giunge fino al disprezzo di sé, e l’amore narcisistico («io t’amavo per la tua pietà»), che rappresenta l’amore di sé che giunge fino al disprezzo dell’altro/a. Modelli che costituiscono la versione estrema ed esasperata di una profonda incapacità d’amare, di una fragilità spesso destinata a trasformarsi nella difficoltà perenne a trovare risposte adeguate di fronte allo scoramento.

C’è allora, nonostante tutto, una tensione positiva di speranza che, in un’epoca contraddistinta da un diffuso senso della precarietà, acuito dalla crisi dell’economia e del lavoro, percorre la decisione di vivere profondamente e stabilmente una relazione di coppia. L’amore fra due persone è già “evangelo”, ossia segno e annuncio della presenza di Dio.

Non a caso, da una prima sommaria analisi delle risposte della diocesi di Trento al questionario proposto alla Chiesa in vista del prossimo Sinodo, si può cogliere con forza l’invito a far sperimentare a tutti, nel concreto e non solo in teoria, la realtà di una Chiesa aperta, pronta ad ascoltare le ragioni, a sostenere nella difficoltà e a offrire prospettive mai esaurite ed esauribili di umanizzazione.

Insomma, la bellezza del matrimonio e l’importanza della vita di coppia sono viste come il punto di partenza di un percorso dinamico, e in continuo divenire, della continua riscoperta del senso del credere. In diocesi di Trento sono attive già da alcuni anni ‘buone pratiche’ di gruppi famiglia che si incontrano per discutere sulla Parola. Si tratta di esperienze positive, da incrementare e valorizzare perché in questi gruppi sono le famiglie stesse ad annunciarsi reciprocamente il Vangelo della famiglia e ad aiutarsi l’un l’altra a tradurlo nella concretezza del vissuto quotidiano.

Si ha talvolta la percezione che vi sia ancora, nella Chiesa, poca reale esperienza delle situazioni di dolore delle famiglie ‘ferite’. Si usano espressioni come: «accogliere i separati nella Chiesa», talora però dimenticando che le famiglie e le coppie ferite sono già, per il fatto del battesimo, Chiesa. Non non c’è una Chiesa di puri e una di peccatori, ma un’unica comunità e un’unica Chiesa. È necessario un cambiamento di prospettiva: da un discorso “sulle” famiglie fragili occorre passare a un discorso “a partire dalla fragilità”, in un approccio che privilegi l’ascolto sul giudizio e ponga specifica attenzione al linguaggio utilizzato.

Per la dottrina cristiana, il matrimonio è sacramento proprio perché parte consustanziale del disegno di salvezza di Dio con l’uomo. L’attenzione e la sempre maggiore cura che la Chiesa deve riporre nel far scoprire il significato autentico del vangelo della famiglia e della sacramentalità del matrimonio non deve tuttavia costituire un alibi per non creare nelle comunità ecclesiali occasioni di dialogo e di confronto anche con coppie non sposate in Chiesa.

Francesco Ghia

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