Forse era prevedibile, forse no: quella che abbiamo battezzato come la fase due di Renzi si sta complicando. Da un lato all’interno del suo partito la minoranza si lamenta che si sia rotto il “metodo Mattarella”, che secondo lei consisteva nel cercare innanzitutto l’accordo interno al partito; da un altro lato sembra rialzare la testa la cosiddetta “opposizione sociale”, cioè quel coacervo di forze che si ispira a qualcosa che vagamente ricorda il vecchio operaismo di sinistra.
In verità la minoranza PD si racconta una favola circa il cosiddetto “metodo Mattarella”. In quel caso Renzi non ha affatto cercato un dialogo e men che meno un compromesso con essa. Non tenendo in alcun conto i gradimenti di Bersani e D’Alema per la candidatura Amato, il segretario si è limitato a mettere sul tavolo un suo candidato a cui sapeva che i suoi oppositori non avrebbero potuto dire di no, per il semplice fatto che non andava bene a Berlusconi. L’astuto Renzi ha in quel caso scommesso sul riflesso di Pavlov della sinistra pidiessina ed ha vinto facilmente.
Perché non prosegue su questa strada, ma ha scelto di rompere non tenendo conto dei mal di pancia di commissioni parlamentari che sono largamente nelle mani di quella minoranza? La ragione è piuttosto semplice: Renzi ha bisogno di vincere in Europa e sa che può farlo solo sfruttando un altro riflesso di Pavlov: quello di un sistema europeo che pensa che gli italiani siano strutturalmente privi di una guida che sappia imporsi sul loro corporativismo storico che distribuisce poteri di veto a destra e a sinistra.
Il presidente del consiglio sa bene che l’Italia non ha ancora superato tutti gli esami a Bruxelles e che la nostra fragile ripresa ha bisogno di un contesto internazionale favorevole per assestarsi (non si dimentichi che si regge in larga parte sulle esportazioni). In più la complessa situazione che abbiamo di fronte in Libia spinge a non mettere in gioco la nostra credibilità, se vogliamo evitare che in quel contesto siamo costretti ad accodarci a decisioni prese da nazioni che rischiano meno di noi di scottarsi le dita in quel braciere.
Può darsi che Renzi potesse ottenere il risultato di confermare la sua leadership senza necessità di accelerare ulteriormente. Può darsi, ma non è detto, e soprattutto ciascuno ha il suo carattere, sicché per lui altre vie risultano difficilmente perseguibili.
Poi bisogna tenere presente un altro fattore: fra pochi mesi c’è il test delle elezioni regionali. Si dirà che in questo caso il premier-segretario non dovrebbe affrontare una battaglia difficile, perché di leader in grado di sfidarlo realmente non è che se ne vedano in giro. Tuttavia questa è una visione semplicistica: proviamo a spiegare il perché.
Il primo fattore è che non si vota direttamente per il presidente del consiglio. Dopo il famoso scacco che D’Alema prese essendosi impegnato direttamente da presidente del consiglio nelle regionali del 2000, nessun capo di governo si è più avventurato su quel terreno dove inevitabilmente dominano le figure dei candidati locali. Dunque il successo o meno dipende in buona parte da quelli, e non è che il PD sia messo bene in partenza, eccetto in Toscana.
Il secondo fattore è che per vincere non basta la debacle degli avversari, come ci si può anche aspettare visto lo stato in cui versa il centro-destra e visto che l’estrema sinistra alla fine preferisce sempre tenersi l’alleanza col PD che le da un po’ di posti al sole. Come si è visto in Emilia Romagna si può vincere, ma con un astensionismo così alto da dare il messaggio di una crisi di consenso irreversibile, cioè la cosa di cui Renzi non ha assolutamente bisogno.
Proprio per tentare di recuperare partecipazione nel vasto mare dell’astensionismo e degli indecisi (siamo sempre intorno al 50% secondo le rilevazioni dei sondaggi) il premier ha bisogno sia di consolidare la sua immagine di leader e marciare spedito nonostante tutto, sia di attestare il partito in una posizione di centro-sinistra, perché al contrario spingerebbe fasce di elettori a tornare nell’alveo della pur disastrata casa berlusconian-alfaniana.
Insomma la partita si complica, e non poco.
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