“Occorre conoscere i libri che le persone leggono, da che film si lasciano entusiasmare, di cosa parlano in famiglia, con gli amici… “
“L’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza di un Pastore con il suo popolo” scriveva Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium (135) rilevando che “molti sono i reclami di fronte a questo particolare ministero che non possiamo chiudere le orecchie”. Il 10 febbraio la Congregazione per il Culto ha pubblicato le Linee guida per l’arte di predicare.
Un tema quanto mai di attualità: ne parliamo con padre Ugo Sartorio, francescano conventuale, 56 anni, già direttore della rivista Credere oggi e poi del Messaggero di Sant’Antonio, autore di un libro fresco di stampa (“L’omelia, evento comunicativo” Messaggero Padova 2015).
Oggi non si è più abituati ad ascoltare “prediche”, neanche in chiesa: lei cosa propone?
Troppo spesso i predicatori, anche bravi, sono troppo centrati su se stessi, su quello che devono dire, e in ogni caso lo schema comunicativo resta quello top/down. Utilizzando i social media, la gente si è abituata a una comunicazione più fluida, condivisa, non certo unidirezionale, al centro della quale più che il messaggio sta la relazione: tu ci sei per me, piuttosto di quello che tu mi dici. Il predicatore dovrà curare maggiormente l’aspetto relazionale, la presa di contatto con il pubblico, da verificare costantemente mentre parla.
L’omelia si fa in chiesa: in che rapporto sta con la missione?
Mi suscita curiosità il fatto che in un tempo nel quale si parla di chiesa in uscita, di nuova evangelizzazione, i documenti del magistero insistano su un tipo di discorso pubblico, quello dell’omelia, che si tiene in un contesto liturgico. Vi è consapevolezza che anche il popolo cristiano non è più così compatto come si vorrebbe far credere e che la celebrazione della messa è partecipata anche da tanti cristiani della soglia e a intermittenza, per cui l’omelia viene rivalutata nella sua dimensione di primo annuncio ai lontani o ai tiepidi nella fede.
Come entrare in sintonia con gli interlocutori, talvolta sconosciuti?
Per gettare un ponte tra la parola di Dio e coloro che frequentano la messa bisogna conoscere bene tanto la prima che i secondi. Il compito del predicatore non è di fare una raffinata esegesi delle letture domenicali e nemmeno di svolgere accurate letture sociologiche per individuare i problemi emergenti della città o del paese, ma di mettere la vita delle persone in presa diretta con Dio che parla. Le persone che si hanno davanti vanno, per quanto possibile, conosciute, amate, frequentate, e per comunicare loro al meglio occorre conoscerne i gusti e gli interessi: che libri leggono, da che film si lasciano entusiasmare, di cosa parlano in famiglia e con gli amici…
Viviamo in un tempo in cui le immagini hanno una parte preponderante; già è difficile ascoltare una conferenza di sole parole per un pubblico interessato: non è pensabile un uso di strumenti multimediali?
Per meglio comunicare, si possono e si devono utilizzare tutti gli strumenti a disposizione, soprattutto quelli multimediali oggi molti e sofisticati. Metterei un paio di condizioni: saper maneggiare bene questi mezzi e non usarli contro la finalità che è loro propria.
Lei mette in guardia però dall’uso dei linguaggi della rete…
A volte assistiamo a prediche spot, come se il Vangelo fosse un prodotto da piazzare, o a prediche blog, cioè a racconti esperienziali e autobiografici in diretta dal pulpito, oppure anche a prediche ipertestuali che mettono insieme un po’ di tutto. Quando si predica bisogna sentire l’altro, guardare il suo volto e sentire il battito del suo cuore. Non si tratta di un esercizio virtuale…
Il sottotitolo recita “In cerca di tratti francescani”. Nell’Anno della Vita consacrata un’omelia per proporre uno stile francescano all’uomo distratto di oggi?
I francescani, con la loro semplicità, nella media sono stimati come buoni predicatori. San Francesco consigliava brevità e insistenza su ciò che per la fede è centrale, per cui il suo monito è sicuramente d’attualità. Semplicità, in senso francescano, non significa né semplificazione né semplicioneria, ma saper andare all’essenziale dopo aver attraversato la complessità.
Il testo insiste sulla necessità di non aspettarsi risultati dall’omelia, come capita alle parole dei genitori.
Predicare bene significa mettere a dimora un buon seme che con il tempo produrrà frutto. Non è detto che questo succeda oggi o domani. A volte le parole di un predicatore, come quelle di mamma e papà, vengono buone a suo tempo, dentro svolte delicate della vita. L’importante è che il seme non rimanga in superficie, per il resto i tempi della crescita non dipendono da noi.
Una volta, scrive nel libro, era necessario predicare alla gente le conseguenze pratiche del credere perché la fede era presupposta: come predicare allora?
Bisogna ritornare alla vita! Sappiano le nostre omelie parlare la parola dell’amore e non del timore, dell’umiltà e non della vanagloria, della semplicità e non della complicazione, annunciando la decisiva per ogni uomo che è Gesù Cristo salvatore.
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