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Dalla notte della depressione al giardino della guarigione nel libro di Gabriella Stanchina
Una belva acquattata dentro di noi, pronta a balzare per aggredirci e ucciderci. È l’immagine scelta da Gabriella Stanchina per descrivere una delle malattie più temute del nostro tempo, la depressione, di cui ha sofferto dai 20 ai 30 anni. Dopo la guarigione, l’autrice ha tradotto quella dolorosa esperienza in un libro, “Nell’immensa città mia, la notte” (Edizioni Psiconline, 2014), presentato giovedì 19 febbraio alla Biblioteca comunale di Trento insieme a don Marcello Farina.
A differenza delle malattie fisiche, dove la ferita che sanguina può essere curata e lascia una cicatrice che indica la guarigione, quelle mentali “non le hai, le sei, e sradicarle significherebbe estirpare una parte di te”. Lo strappo tra la realtà e il mondo interiore che esse implicano condanna ad un eterno presente, uno scollamento che per la scrittrice ha trovato espressione nello scenario inquietante riportato sulla copertina del romanzo.
“In quegli anni mi apparivano spesso in sogno i grattacieli avveniristici di una città abbandonata, immersa nel silenzio. Lì mi sentivo felice perché non c’era l’uomo e quindi nemmeno la possibilità del male, ma era un luogo deserto, sterile. Dopo essere guarita, ho fatto quel sogno un’ultima volta e camminando per le vie ho visto mulinelli di foglie. Ho capito che da qualche parte c’era un giardino e mio compito era trovarlo”.
Il romanzo prende il titolo dal verso di una poesia di Marina Cvetaeva (1892-1941), poetessa russa anch’essa sofferente di depressione, ed è narrato in prima persona dalla protagonista, ricoverata in una clinica circondata dalla natura rigogliosa della campagna che però sfugge alla percezione di chi vede il mondo solo di un colore, il grigio.
Durante i ricoveri, l’autrice aveva tenuto diari, ma poi sono serviti altri anni di “apprendistato del silenzio” per riuscire a dare voce non solo alla sua ma anche alle storie delle persone incontrate in quegli anni – la Ragazza delle Freccette, il Controllore, il Ragazzo che si Lava le Mani, Marco – lasciando che si dissolvessero nel buio, finalmente libere.
Attraverso una scrittura che non fa sconti, Stanchina rivela la spietatezza della depressione, un andare alla deriva che fa sperimentare l’eclisse del senso. Tuttavia, se “la malattia è venire a contatto con qualcosa che è più vitale di noi” – afferma l’autrice citando Novalis, il poeta a cui ha dedicato gli studi di dottorato -, alla fine della notte arriva l’alba ed è questa è la speranza che emerge dalle pagine. “A volte siamo costretti a sostare nella notte, ne siamo impastati, ma essa è attesa di una luce”.
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