Sono almeno mezzo milione le persone che si sono rifugiate in Kurdistan
Ad Alqosh, cittadina della piana di Ninive nel Kurdistan iracheno, resa celebre dal monastero di sant'Ormisda, incastonato sulla montagna che domina la vallata, sopravvive una Chiesa di confine, a pochi chilometri dal muro che separa i territori controllati dai Peshmerga curdi dai primi bastioni dello Stato islamico. Mosul, roccaforte dei jihadisti, è a soli 50 chilometri a sud. Una terra di frontiera, sulla quale pende la minaccia costante del Califfato, capace di conquistare ampie porzioni di Siria e Iraq. Alqosh è composta in larghissima maggioranza da cristiani, che ogni giorno devono fare i conti con la paura, racconta l'agenzia AsiaNews. Come molte altre cittadine e villaggi del Kurdistan iracheno, Alqosh ha accolto un numero consistente di rifugiati. "Questo è un villaggio cristiano, non ci sono musulmani. Nella nostra scuola abbiamo accolto alcune famiglie, altre sono sparse per la città; vi sono 13 famiglie di profughi, un centinaio di persone in tutto" racconta p. Joseph ad AsiaNews.
Anche Erbil ospita un gran numero di rifugiati. Nello scheletro dello Shlama Mall ancora in costruzione vivono 350 persone. Panni stesi e coperte a fare da pareti. Sono almeno mezzo milione le persone che si sono rifugiate in Kurdistan – di tutto l'Iraq, forse la zona più tranquilla – per sfuggire allo Stato Islamico di Siria e Iraq (Isis). AsiaNews da mesi sostiene i rifugiati con la campagna "Adotta un cristiano di Mosul". Una valanga di profughi – in particolare cristiani e yazidi – costretti ad abbandonare le loro case e le loro vite sotto la minaccia delle milizie dell'Esercito islamico: "O vi convertite all'islam, o pagate la tassa di protetti, oppure fuggite. Se restate, fra noi e voi vi è la spada".
Tra le molte testimonianze raccolte tra i profughi, riproponiamo quella di una donna, Khiria Al-Kas Isaac, 54 anni, rifugiata nel campo di Ankawa, vicino ad Erbil. Al settimanale cattolico malese in lingua inglese “Catholic Herald” ha raccontato piangendo la sua drammatica esperienza. Il 7 agosto 2014 fu svegliata bruscamente insieme al marito per scoprire che il loro villaggio, Qaraqosh, era stato occupato dai combattenti dell’Isis. Fin dal primo giorno della cattura le dissero che se non si convertiva all’islam, sarebbe stata decapitata. Era con altre 46 donne. Tutte rifiutarono tale ingiunzione; furono allora separate dai familiari, flagellate, picchiate per dieci giorni nel tentativo di far loro abbandonare la fede. Khiria rispose: “Sono nata cristiana e se questo mi porta alla morte, preferisco morire da cristiana… Gesù ci ha detto: Chi mi rinnega davanti agli uomini, io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”. Spesso le donne erano riunite insieme per assistere alla flagellazione di qualcuna, ma nessuna accettò di convertirsi all’islam. Il decimo giorno tutte quelle donne furono riunite nuovamente e un terrorista puntò il pugnale al collo della signora Khiria e davanti a tutte disse: “Convertiti o sarai uccisa”. Rispose: “Sono lieta di diventare una martire”. A quel punto i terroristi la lasciarono, ma prima la derubarono di tutto quanto possedeva, inclusa una somma che aveva messo da parte per un’operazione ai reni.
Finalmente il 4 settembre riuscì a raggiungere con due altre donne il confine con la regione curda e lì poté rivedere il marito. Il giorno dopo altre 14 persone di Qaraqosh furono espulse, mentre Khiria non sa cosa avvenne degli altri cristiani del villaggio. Khiria non riesce più a dormire a causa degli incubi causati dalla sua drammatica esperienza.
Nel Kurdistan iracheno l'emergenza non è finita: occorre organizzare la distribuzione almeno settimanale di beni essenziali (cibarie, medicine e – ora che è inverno – coperte, stufette, indumenti pesanti). Immaginare il futuro non è facile: nel progettarlo si insinua sempre la paura provata. I profughi – scrive AsiaNews – “soffrono di una doppia ferita: quella di un futuro che non c'è e quella di un passato che sanguina”.
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