Sei mesi nella perla dell’Africa, l’Uganda, raccontati da tre trentine che, finita l’università, sono partite ad aprile come volontarie. Destinazione il centro sanitario “Nostra Signora di Fatima”, fondato nel 1985 grazie al sostegno finanziario del Gruppo Missionario di Folgaria, dal dottor Carlo Spagnolli ad Orussi, un piccolo villaggio di pochi abitanti sulle montagne ugandesi confinanti con il Congo, dove la vita segue il ritmo del sole.
Un luogo che per sei mesi le neo infermiere Angela Adami di Pomarolo e Katia Lorenzi di Riva, e l’ostetrica Valentina Balduzzi di Vigolo hanno chiamato casa e dove, oltre a conoscere il popolo Alur, hanno imparato tantissimo: dal curare le malattie tropicali, al far nascere i bambini, al decidere se era il caso di trasferire i pazienti più gravi, al vedersi morire davanti persone che non potevano permettersi di andare in ospedale.
In Uganda l’assistenza sanitaria si paga a caro prezzo, anche a costo della vita, e nel centro dove hanno operato le ragazze – attualmente gestito da sr. Florence appartenente all’ordine del Sacred Heart di Moyo – non ci sono medici, ma viene garantito un servizio minimo. Tra posti letti che mancano e strumenti insufficienti, ma anche tanta fierezza. “Perché io un popolo che si aiuta così non l’ho mai visto, fra di loro si sentivano come dei fratelli, uniti al di là del legame di sangue”, spiega Valentina, l’unica ostetrica del centro. “Non hanno niente, ma sono sempre pronti a condividere tutto”.
Grazie ai contatti con Carlo Spagnolli, le tre ragazze sono state ospitate dalle suore della zona e si sono divise tra reparto maternità, pronto soccorso, pediatria e attività di sensibilizzazione e vaccinazione. “Da noi in genere non si studiano le malattie tropicali, come la malaria, ma abbiamo davvero sperimentato di tutto. Non è facile raccontare questi sei mesi, ma sicuramente mi porterò per sempre dietro il calore della gente che ho conosciuto. Eravamo le uniche bianche, ma la gente non aveva alcun pregiudizio”, racconta Katia che tra i ricordi conserva anche quel sentimento di impotenza che ha accompagnato, lei e le sue compagne, per tutta l’esperienza.
“Io ed Angela non dimenticheremo mai quel bambino di due mesi in preda alle convulsioni che ci è morto davanti perché la madre non aveva i soldi per mandarlo in ospedale”, continua Katia. Immagini che le tre ragazze non scorderanno mai, ma che in poco tempo, nonostante i loro vent’anni e poco più, hanno imparato a gestire.
“Visitavo tante mamme al giorno che mi riconoscevano, mi chiamavano per nome per mostrarmi mesi dopo i bambini che avevo fatto nascere”, spiega Valentina che, grazie ai fondi ricevuti anche dall’associazione “Solidarietà vigolana”, è riuscita ad installare all’interno del centro l’ossigeno, che solo poche ore dopo aveva già salvato la vita a un bimbo che altrimenti non ce l’avrebbe fatta.
“Se avessimo dato ascolto ai nostri timori non saremmo mai partite ma una volta arrivate ci siamo sentite subito accolte”, conclude Angela. In quella terra, tutta verde e rossa, anche le tre trentine in poco tempo hanno lasciato il loro cuore. Tanto che, se potessero, vi farebbero ritorno con il primo volo.
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