Non è tanto questione di calo nei sondaggi del gradimento del governo e del premier o di quello del PD, perché i sondaggi registrano impressioni del momento e sono mutevoli. Il problema che Renzi ha di fronte è la necessità di superare alcune verifiche con cui deve fare i conti da qui alla prossima primavera. Ha fondate ragioni per dire che le proteste di piazza non fanno cadere il governo, ma deve prendere in considerazione che ha bisogno di esibire qualche risultato per tenere sotto controllo una situazione che rimane difficile.
Il premier non è un politico ingenuo e lo sa benissimo, tanto che ha di recente ammorbidito il confronto interno al suo partito, puntando ad una convivenza civile con la maggior parte dell’ala ex bersaniana, che è quella veramente significativa, perché ha in mano molte leve dell’organizzazione e della militanza tradizionale. I Civati, Fassina, Bindi e compagnia sono folklore.
L’accordo con la minoranza PD si è sviluppato su due fronti: prima la questione della riforma del diritto del lavoro, poi la gestione delle scadenze elettorali alle regionali. Sul cosiddetto Jobs Act si è accettato di cambiare il testo approvato al Senato, concedendo alla minoranza interna una apertura di tutela rispetto ai licenziamenti disciplinari. In sé la questione dovrebbe essere innocua se fossimo in un paese dove la parola “buon senso” significa qualcosa, perché semplicemente afferma che se un licenziamento disciplinare viene accertato non avere alla base alcun vero motivo disciplinare, esso è nullo. Il problema però è che non si riesce a trovare un meccanismo idoneo a decidere in maniera equa nei casi controversi, perché da un lato non si vuole ammettere che la parola del datore di lavoro sia presuntivamente vera, ma dall’altro non ci si fida di un deferimento di questa valutazione ad un giudice, vista la complessità dei casi reali e la indeterminatezza di molti casi al confine (per esempio: chi boicotta una produzione fa una azione di protesta “sindacale” o viene meno ad un dovere di fiducia verso l’azienda?).
Essendo il problema di quelli irrisolvibili in teoria, lo si vorrebbe risolvere con una simbologia politica, ma qui casca l’asino, perché la minoranza PD vuole una vittoria di bandiera per non perdere il sostegno della CGIL nella sua battaglia interna e il NCD vuole una vittoria altrettanto di bandiera per non perdere la faccia verso il moderatismo conservatore.
Al momento sembrerebbe che Renzi abbia optato per rafforzare l’unità del PD in vista delle difficili scadenze che lo attendono (legge elettorale, legge di stabilità, prima o poi elezione del successore di Napolitano). Il partito di Alfano, si stima, può abbaiare, ma non mordere, perché se fa saltare il governo salta anche lui di conseguenza.
Il premier ha ovviamente bisogno di risultati perché in mancanza di questi va azzoppato al test elettorale delle regionali di primavera, che è il vero passaggio cruciale (qualcuno si ricorda che le ambizioni di D’Alema naufragarono senza ritorno proprio su una tornata di elezioni regionali nel 2000). Qualche oroscopo si cercherà già di trarlo dalle elezioni regionali di Emilia Romagna e Calabria domenica prossima, ma è solo un antipasto, anche se già lì si vedrà se il suo accordo con la “ditta” bersaniana gli darà non solo la vittoria del PD (che ad oggi appare abbastanza scontata), ma una vittoria con numeri tali da poter essere presentata come un successo (dunque almeno con un astensionismo contenuto).
E’ però evidente che il vero banco di prova sarà la tornata di primavera di sette regioni importanti (Veneto, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia): lì il PD dovrà mostrare se si conferma davvero quel “partito del 40%” su cui Renzi ha tanto ricamato. Per farlo dovrà certo tenere insieme le varie anime del partito, ma soprattutto dovrà poter contare su una opinione pubblica che ancora scommette sulle sue capacità di riformatore, cosa difficile se per allora non avrà da mettere sul piatto risultati concreti, tanto sul versante delle riforme istituzionali (legge elettorale, riforma del senato, nuovo presidente della repubblica), quanto su quello, che poi alla gente interessa di più, di un minimo di svolta in tema di economia e di occupazione.
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