Venticinque anni fa il massacro dei gesuiti in Salvador. Rimane la testimonianza, ancora attuale, per una “civiltà della sobrietà”
Si sapeva, in quell’autunno del 1989, del clima sociale di estrema, continuata e inaudita violenza in Salvador. Fomentato dagli “squadroni della morte” al soldo dei latifondisti che paventavano che una sia pur tenue riforma agraria fosse in grado di scardinare i loro enormi interessi economici. Il Salvador stava vivendo una terribile “guerra sporca” a bassa intensità che falcidiava la base popolare più impegnata nel cambiamento sociale nel segno di una maggior giustizia sociale.
E però quando giunse la notizia dell’eccidio dell’Uca (la prestigiosa università di San Salvador dei gesuiti) rimanemmo tutti increduli e sgomenti. Ricordo bene come fosse adesso quei momenti sul far della sera di 25 anni fa, ad un convegno di “Mani Tese” a Firenze, con una platea di un migliaio di giovani sgomenti e silenti all’annuncio della triste notizia.
I soldati salvadoregni del battaglione Atlacatl – addestrato negli Stati Uniti – fecero irruzione verso le tre di notte, tra il 16 e il 17 novembre del 1989, assassinando a freddo il Rettore, il padre Ignacio Ellacuria, cinque suoi confratelli, insieme alla cuoca Elba Julia con la figlia quindicenne Celina. Si saprà poi che solo un soldato si era rifiutato di sparare: uno dei padri gesuiti, Segundo Montes, era stato il suo Rettore quando lui era studente in quell’università.
P. Segundo Montes era sempre allegro e gli piacevano le feste con la gente, quando giocava al calcio faceva volare alto il pallone… P. Juan Ramon Moreno aveva lavorato in Nicaragua e si era affezionato ad un villaggio rurale dove amava ritornare per andare a pescare… P. Joaquim Lopez y Lopez aveva fondato “Fe y alegria”, un’associazione con una trentina di centri in tutto il Salvador frequentati da diverse migliaia di giovani… E P. Ignacio Ellacuria, il Rettore dell’Uca, era uno studioso acuto e rigoroso nelle analisi sociali di un Salvador delle abissali diseguaglianze, governato da poche famiglia potenti; persona affabile e gioviale, a cui si rivolgeva sovente l’Ambasciatore degli Stati uniti, per avere qualche parere e consiglio.
L’Uca era stata fondata per far crescere le élites del Salvador, ma poi si era gradualmente trasformata – sulla scia di Medellin (1968), la grande riunione dell’Episcopato latinoamericano che per la prima volta riconosce l’ingiustizia strutturale come un peccato che interpella la coscienza cristiana – in un laboratorio di studio e di ricerca per la trasformazione sociale. Trasformazione delle strutture ingiuste e della coscienza di ciascuno – insisteva il Rettore dell’Uca – poiché era convinto che senza il cambiamento del cuore e la conversione di vita, nessuna società e mai può mutare in meglio.
Proprio uno degli ultimi articoli di Ignacio Ellacuria –scritto pochi giorni prima del suo assassinio – fa comprendere il senso del messaggio dell’équipe dei padri gesuiti di San Salvador. Si intitola “No humanidad sin solidaridad compartida”. Vi si insiste sulla necessità di “invertire la storia, sovvertirla e lanciarla in un’altra direzione” per interrompere il circolo vizioso di un mondo che continua a generare una esigua minoranza di ricchi Epuloni e grandi maggioranze di poveri Lazzari. Ellacuria contrappone alla “società della ricchezza” che si è rivelata “un fallimento umano e morale” una civiltà della povertà e della sobrietà con due compiti fondamentali: l’uno consiste nel “creare modelli economici, politici e culturali che rendano possibile una civiltà del lavoro sostitutiva di una civiltà del capitale”; l’altro tende a irrobustire “la solidarietà condivisa, in contrapposizione con l’individualismo chiuso e competitivo della civiltà della ricchezza”.
Ellacuria era convinto che non si può battersi a favore della civiltà della sobrietà senza soffrire persecuzioni e diffamazione. La moltitudine di martiri per la giustizia in America Latina a partire da Medellin in poi ne era la prova più evidente – dirà poi Jon Sobrino, teologo della liberazione scampato all’eccidio perché si trovava all’estero. Era un utopista, il padre Ellacuria. In quel suo ultimo scritto definiva la civiltà della sobrietà come “uno stato universale di cose in cui sia garantita la soddisfazione delle necessità fondamentali, la libertà delle opzioni personali e un ambito di creatività personale e comunitaria che permetta l’apparizione di nuove forme di vita e di cultura, nuove relazioni con la natura, con gli altri esseri umani, con se stessi e con Dio”.
L’utopia della terra nuova e dell’essere umano capace di rinnovarsi e in questo è evidente l’influsso della spiritualità ignaziana. Ellacuria terminava il suo ultimo articolo con queste parole: “Esseri umani nuovi, che continuano ad annunciare fermamente, per quanto sempre a tentoni, un futuro sempre più grande, perché al di là dei successivi futuri storici si intravede il Dio salvatore, il Dio liberatore”.
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