“Il virus fu isolato nel 1976. Nell’ultimo anno abbiamo fatto più esperienza che nei vent’anni precedenti”
Ruggero Giuliani, 43 anni, è un medico bolognese che si occupa di malattie infettive, specialmente tropicali. Era ancora studente quando andò per la prima volta in Africa, in Ghana. Seguirono soggiorni in India e in Bangladesh. Dopo la specializzazione, assieme alla moglie, anche lei medico specialista in malattie infettive, ha lavorato per qualche anno in Italia. “Lavoravamo per gli immigrati in Puglia, in Sicilia, in Campania a Castelvolturno, per i punkabestia a Bologna”. Poi il ritorno in Africa, per combattere l’Aids, in Zambia e in Etiopia. Negli ultimi due anni lui e la moglie sono stati in Sudafrica. E’ tornato pochi giorni fa da Monrovia (Liberia), uno dei luoghi dove è scoppiata l’epidemia di Ebola, dove ha operato per tre mesi, da agosto a ottobre, per Medici senza Frontiere.
Raccontaci la tua esperienza.
“E’ stata bella ma dura, soprattutto all’inizio. Vivevamo in un compound vicino al centro d’isolamento dei pazienti. Le regole di sicurezza sono molto strette ed è importante osservarle in maniera quasi maniacale. Ad esempio vige la ‘no touch policy’: significa non avere contatti fisici con nessuno. E’ una procedura importantissima per evitare il contagio, ma dà una sensazione di spaesamento”.
Com'è la situazione a Monrovia?
“In agosto ho trovato la vita di Monrovia bloccata. Poi pian piano la società si è rimessa in moto. Per abitudine, e un certo senso di fatalismo. Là sono molto religiosi, soprattutto evangelici”.
Qual era il tuo compito?
“Io ero il coordinatore medico, c’erano circa sessanta sanitari internazionali e un migliaio di addetti locali. Poco dopo il mio arrivo un’infermiera francese si è ammalata. Ho dovuto gestire io la situazione: dopo le prime cure l’abbiamo rimpatriata. Ma diverse persone sono state prese dal panico: per cinque di esse non c’è stata altra soluzione che rimandarle a casa. La ragazza francese è guarita, per fortuna. Ma quattro colleghi liberiani, che hanno sviluppato la malattia nei due mesi in cui sono stato là, sono morti. Purtroppo abbiamo sempre convissuto con la morte. Ogni giorno sono morte da dieci a venti persone. Noi abbiamo cercato di lavorare molto sui protocolli di sicurezza, che abbiamo trovato al nostro arrivo non del tutto adeguati”.
Hai avuto la sensazione d’inutilità del tuo lavoro?
“Direi di no, per almeno due motivi. In primo luogo i malati ospitati nel centro d’isolamento non contagiano altre persone. E poi è vero che non ci sono ancora farmaci specifici, ma anche grazie alle terapie di supporto una quota non trascurabile guarisce. Da noi il 42% si è salvato, sono andate meglio le donne e i giovani sotto i trent’anni”.
Avrai tanti aneddoti da raccontare.
“Un caso è stato quello del mio autista. Un giorno si ammala la moglie, che ricoveriamo, ma poi muore. Pochi giorni dopo anche lui comincia ad avere i primi sintomi. L’ho fatto subito ricoverare ma non ce l’ha fatta neanche lui. Avevano sei figli di età compresa fra i tredici anni e i sei mesi. La più piccola era allattata dalla mamma, e questo è un mezzo di trasmissione del virus molto pericoloso. Eravamo quasi sicuri che sarebbero morti anche loro. Invece i bambini si sono salvati tutti!”.
E' vero che i morti devono essere cremati?
“Lo prevedono le nostre procedure: i cadaveri contengono quantità elevatissime di virus e sono altamente contagiosi. Ma c’è chi cerca di sottrarsi. E’ il caso del figlio del proprietario di una clinica privata, portato al centro quand’era in condizioni gravissime e arrivato già morto. I parenti hanno reclamato il corpo per fargli un funerale secondo le usanze locali. La cerimonia dura un’intera giornata: dopo alcuni giorni ben undici partecipanti al funerale si sono presentati con i sintomi della malattia”.
Quali sono i sintomi della febbre emorragica?
“Le forti emorragie esterne ci sono solo nel 5% dei casi. A volte qualche sanguinamento nelle gengive o gli occhi rossi, accompagnate da febbre alta. Dopo qualche giorno comincia l’attacco devastante al sistema gastrointestinale e al fegato. I malati muoiono di solito dopo 7-12 giorni. Se superano il dodicesimo giorno le prospettive sono buone, al quindicesimo sono salvi”.
Cosa si conosce oggi della malattia?
“Poco. Il virus Ebola, che si chiama così da un fiume dello Zaire, fu isolato là nel 1976. Ci sono altri ceppi del virus, ma quello che abbiamo in Liberia è quello dello Zaire. Poi, in vent’anni, ci sono state ventuno epidemie per un totale di 1100 casi. Quest’anno, da marzo, ci sono stati più di 5000 casi, di cui 1000 nel nostro centro a Monrovia, nei due mesi in cui c’ero anch’io. Nell’ultimo anno, purtroppo, abbiamo fatto più esperienza che nei vent’anni precedenti”.
Sono state avviate sperimentazioni?
“Non ci sono sperimentazioni su umani, ma solo su un numero molto limitato di scimmie e di criceti. Solo in un caso un uomo, un biologo russo, che si è punto per errore in laboratorio con una siringa infetta, è stato trattato con il vaccino. Lui non ha sviluppato la malattia”.
Esiste un vaccino?
“A Monrovia è venuto uno dei migliori studiosi di Ebola, Heinz Feldmann, che ha sviluppato uno dei due vaccini oggi disponibili. Speriamo che le sue ricerche possano portare a risultati. Sembra che inizino a interessarsi anche le multinazionali del farmaco, come la Glaxo. Probabilmente l’impulso verrà dall’interesse che ora hanno anche le organizzazioni militari (il virus è una potenziale arma batteriologica). Non è un caso che dei tre laboratori sull’Ebola a Monrovia due siano dell’US Army”.
Ora cosa ti aspetta?
“Adesso sto tranquillo, sotto osservazione, fino a passare le tre settimane. Poi farò un po’ di lavoro di divulgazione. MSF tiene molto all’advocacy: si tratta di fare del lavoro d’informazione e presentazione dell’attività di MSF nella battaglia contro l’Ebola. A gennaio, ci piacerebbe andare in Mozambico”.
E tornare in Italia?
“Ci siamo informati sulla possibilità di fare i medici di base per il Servizio Sanitario nazionale, ma le procedure richiedono di fare due anni di pratica, naturalmente non pagata. La nostra esperienza non vale un granché In Italia!”.
a cura di Paolo Pellizzardi
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