Una delegazione della Conferenza Episcopale Italiana si è recata nel Kurdistan iracheno, raccogliendo le sofferte testimonianze della gente in fuga dai terroristi dell’autoproclamato Stato islamico
Erbil (Kurdistan iracheno), ottobre 2014. Anticipato da giorni di pioggia, l’inverno cala dalle montagne del Kurdistan iracheno sulle vie e sulle piazze della città, entra senza incontrare ostacoli nelle tende e nei container, negli accampamenti allestiti a ridosso di chiese, oratori e scuole. Nei quartieri della città, nelle sue periferie si contano 27 campi di prima accoglienza: pullulano di migliaia di famiglie, fuggite in fretta, di notte, dalla furia omicida dei terroristi dell’autoproclamato Stato islamico, guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, sedicente successore di Maometto.
“Mi hanno svegliato alle tre dello scorso 6 agosto – racconta p. Samir Yousif, parroco di cinque villaggi ad Amadya, a nord di Mosul, e di altri sette oltre il confine siriano –: le strade erano gremite di persone in fuga. Centinaia di loro sono morte disidratate. Ho passato un mese a piangere su questa tragedia, mentre cercavo di rispondere a infinite richieste di cibo, acqua e ricovero. Devo riconoscere che ho toccato con mano la presenza di una Provvidenza enorme, che ci ha permesso di non restare sepolti nell’impotenza; ma abbiamo veramente bisogno che non ci abbandoniate, distogliendo da noi il vostro sguardo”.
Per raggiungere l’abitazione del vescovo caldeo di Erbil, Bashar Warda, si attraversa un accampamento. Bambini giocano con niente nel poco spazio rimasto libero. Ragazze stringono bambini così piccoli da essere nati in esilio. Donne chine a terra lavano la biancheria in tinozze, per poi stenderla al vento dei rami degli alberi o dei fili delle reti. Anziani siedono in attesa su tappeti di fortuna. Gli uomini fanno la fila per registrarsi: nell’episcopio giovani universitari ascoltano e stilano l’elenco delle necessità più urgenti sulla base dei nuclei familiari. “Ci serve la vostra solidarietà – dice il vescovo – per allestire piccole abitazioni, che vadano a ingrandire i villaggi dove già abitano altre famiglie cristiane: a quel punto, potremo costruire anche le scuole”. In città la Chiesa ne sta già allestendo quattro, mentre si attiva per realizzare mini-prefabbricati (20 metri quadrati per nucleo) dove trasmigrare le famiglie dalle chiese e dalle tendopoli.
Nei campi prende forma la vita delle comunità. Perché i profughi sono medici, insegnanti, sacerdoti, barbieri, che anche non esitano a mettere a disposizione anche qui la loro professionalità. Fra questi, il vescovo caldeo di Mosul, Amil Nona, fuggito dalla città con 120 mila cristiani, la maggior parte dei quali provenivano dalla pianura di Ninive: “La nostra terra – dice – custodisce la memoria del passaggio degli apostoli Tommaso e Taddeo; abbiamo chiese che risalgono al II secolo dopo Cristo: da allora è la prima volta che non vi si celebra più nemmeno la Messa”.
“La mia gente vive un desiderio struggente di tornare alle loro case – racconta – pur nella consapevolezza che sono state depredate dai jihadisti o dai vicini di casa, che hanno potuto rimanere proprio perché musulmani; per questo, anche immaginando un improbabile ritorno, non sarà facile ricostruire la convivenza sociale. Senza lavoro né sicurezza sociale, cerca di emigrare all’estero: ci sono ragioni fondate perché tra qualche anno qui non vi sia più nemmeno la traccia della presenza cristiana”.
Ogni tenda, ogni piccola struttura, pur spoglia pressoché di ogni cosa, non manca di un crocifisso o di un’immagine mariana, di un segno religioso appeso alla parete o collocato su un supporto di fortuna. A sera i giovani si riuniscono e preparano i canti per la preghiera. “Portate al Santo Padre il messaggio che noi gli vogliamo bene e lo attendiamo – raccomanda una donna –; ditegli che noi rimarremo fermi nel Vangelo per il quale oggi stiamo pagando un prezzo così alto”. Con loro, la minoranza yazida, anch’essa vittima di questo nuovo genocidio.
Il Presidente del Kurdistan iracheno, Mas’ud Barzani, è al fronte – spiega Khalid Jamal Alber, del Ministero per gli affari religiosi – dove guida la resistenza dei peshmerga contro l’avanzata dei terroristi dello Stato islamico. Da Baghdad arriva la notizia che i miliziani dello Stato islamico attaccano l’aeroporto. Tra tutti si respira stupore inorridito per il comportamento dell’Occidente, fatto di “incertezze inconcludenti” a fronte di un progetto politico-militare sanguinario, che punta ad accreditarsi come il pilastro dell’umma musulmana e attira alcune migliaia di giovani anche dall’Europa. Parole ancora più dure, al riguardo, le esprime mons. Shlemon Warduni, presidente di Caritas Iraq. Vengono al pettine in maniera drammaticamente violenta tutte le contraddizioni tenute a bada dal regime dittatoriale di Saddam Hussein e mantenute in equilibrio dagli interessi delle potenze sia occidentali che del mondo arabo.
I rappresentanti del governo, come lo stesso sindaco di Erbil, Nausat Hady, aprono la porta alla riconoscenza per il sostegno che la Chiesa italiana sta assicurando ai profughi, nonché per il finanziamento di un’Università che consenta l’accesso a tutti. È ascoltando loro e incontrando i Vescovi locali che Caritas Italiana decide di proporre, quale aiuto concreto, una sorta di gemellaggio tra le famiglie, le parrocchie e le diocesi italiane e quelle dei profughi: mons. Warda stima che con 5 euro al giorno si riesca a garantire un minimo ad un nucleo di cinque persone; con 140 euro si può coprire un mese.
Con queste promesse la piccola delegazione della Cei, guidata da mons. Nunzio Galantino, rientra in Italia. Nel cuore i volti di genti fiere, impoverite da sera a mattina dalla persecuzione.
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