Il pilota Francesco Volpi compie cent'anni, il Trentino lo celebra
Gli occhi sono scritti nel suo cognome. Lucidi, vispi, accorti. Come quelli delle volpi. Ancora capaci di scrutare l'orizzonte infinito che si staglia davanti ai comandi di un aereo e non perdere la rotta. Con tanto di licenza di volo appena vidimata, a cent'anni quasi suonati: il più vecchio pilota in attività al mondo. «Piano, diciamo nel mondo aeronautico conosciuto», si schernisce il comandante tenente colonnello Francesco Volpi, nato – recita il documento – il 13 ottobre 1914 a Trento, cittadino doc («Abitavo nel Torrione di piazza Fiera»). I suoi conterranei gli hanno preparato una grande festa domenica prossima all'aeroporto Caproni (vedi a lato), per la quale non sono mancate nemmeno (tristi) polemiche su paternità e modalità organizzative tra l'attuale presidenza dell'Associazione Aeronautica (di cui Volpi è stato fondatore) e la Provincia. L'uomo abituato a cimentarsi sui fronti bellici, stempera: «A me piace volare alto. Sono felice della cerimonia che hanno preparato per me e accoglierò con orgoglio l'Aquila di San Venceslao».
Punto e capo. L'aquila starà accanto al medagliere ricchissimo accumulato in tanti anni di attività: dalla croce biancorossa della Luftwaffe (l'aeronautica tedesca nella quale militò) al sigillo di commendatore. «Cento anni sono tanti, anche se poi quelli che veramente contano sono un'ottantina. Fino a vent'anni si impara a vivere». A vent'anni Volpi era allievo pilota con l'Aeronautica militari italiana a Cameri, provincia di Novara. «Avevo la passione per il volo da sempre. Da piccolo giocavo con gli aeroplanini di carta, ma non riuscivo a farli stare su perché non conoscevo le regole del volo». Il padre lo sostenne, la madre meno: «Se ne rimaneva a letto dicendo che stava male per me. Il medico di casa mi aiutò a convincerla». Tra le pieghe fondamentali della sua grande tela centenaria, Volpi ricorda l'esperienza al Liceo Prati, «lo dico perché erano molto severi e rigidi e quella formazione ha avuto un ruolo determinante per la mia carriera di pilota. Perché in aria sei solo, sei responsabile di te stesso e devi prendere decisioni in tempi rapidissimi».
La lucidità e il vigore di un uomo con un secolo sulle spalle stupiscono appena varcata la soglia della casa di via Adamello a Trento, dove Francesco Volpi vive solo, vedovo da qualche anno della moglie Edda (scomparsa a 91 anni), senza badante e con il solo supporto, talora, dei due figli maschi, un'ex pilota di caccia e un'ex dirigente provinciale. La selezione in un archivio mentale vastissimo come quello del secolare pilota trentino è impresa ardua. Di sicuro non vi sono parti corrotte, come spesso capita invece alle memorie digitali. Ma le sue 236 missioni durante la Seconda Guerra Mondiale, e soprattutto la Campagna sul fronte di Russia, restano le pagine scolpite. Sulla cortina orientale trasportava viveri e militari, soprattutto feriti. «Ogni volo, in quei momenti, poteva essere l'ultimo, perché voli “lisci” in guerra non se ne fanno. A soli ventisei anni mi toccò il comando di squadriglia: una responsabilità grandissima, con una trentina di piloti e una zona di operazioni in Russia che era la più difficile di tutto il conflitto».
Dopo l'esperienza militare, il passaggio all'aviazione civile con l'Ala Littoria, la prima compagnia aerea di linea italiana di proprietà statale, fondata dal fascismo nel 1934. E poi un grande impegno sul versante locale con l'Associazione Arma Aeronautica, l’Aeroclub di Trento e l'Associazione piloti di montagna: «Il Gruppo di Brenta è fantastico. Troppo bello attraversarne le guglie. Sarà un annetto che non ci vado. Perché bisogna trovare le giuste condizioni atmosferiche».
Dei suoi cento anni dice di non aver fatto niente per arrivarci, «ma anche per non arrivarci». Tradotto? «Ho cercato di fare una vita molto sana, molto sportiva: atletica, sci, nuoto, montagna con il mio amico Bruno Detassis. Non ho mai fumato, né bevuto». Uomo senza vizi? «Non saprei dire», sorride a denti stretti. Poi riprende: «Il volo forse mi ha aiutato. Perché bisogna essere sempre coscienti di se stessi, sapere cosa si fa. Ci vuole la tempra: non è che decidi di fare il rocciatore di punto in bianco, deve maturare qualcosa. Per il volo è lo stesso cosa». Tempra, ma anche investimento nei valori che contano. «Onestà di vita e verità. La prima cosa che ho insegnato ai miei figli, appena iniziavano a parlare, il non dire bugie. Vorrei mi ricordassero non come guerriero dei cieli, ma un gentiluomo. Come mi hanno insegnato le mie nonne, contesse asburgiche».
L'ultimo decollo non più tardi di una settimana fa sul “Caproncino” di Mario Marangoni, lo stesso che userà domenica per il volo del centenario sul capoluogo. «A cento anni volerò sullo stesso tipo di aeroplano sul quale ho fatto il primo brevetto, nel 1935. Caproni ne fece circa mille esemplari, il primo volò nel 1933». C'è un rammarico, comandante Volpi? «Mi prende alla sprovvista. Direi no, anche se probabilmente non è vero. Il grazie principale a mio padre e a mia madre. E poi a mia moglie che mi ha sempre consentito di coltivare la passione». La fede ha avuto un ruolo o è stata secondaria? «Sinceramente non ho mai pensato a quello. E anche a proposito dell'aldilà sono molto in dubbio. Penso non ci sia, però…»
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