Don Stefano Zeni, giovane teologo, biblista che si divide tra l'attività pastorale ad Albiano e quella di docente in Seminario, ha tenuto la relazione ufficiale davanti agli operatori pastorali giunti da tutti i decanati della diocesi.
Il relatore ha voluto contestualizzare il suo intervento nel solco dei percorsi pastorali degli anni precedenti, tornando sul brano evangelico di Luca che parla delle strade di Emmaus e dei discepoli in fuga da Gerusalemme dopo la crocifissione del loro Maestro, che discutono delle scritture con Gesù, viandante come loro, che riconoscono solo al momento dello spezzare il pane, soffermandosi su due parole del loro intercalare: “Noi speravamo”, titolo dell'assemblea pastorale. Parole scomode quasi criptate cui don Zeni ha voluto aggiungerne delle altre a mo' di sottotitolo: “con uno sguardo di speranza sul mondo d'oggi”. In quel “speravamo”, e cioè in un verbo al modo imperfetto, secondo il biblista si ravvisa l'idea di qualcosa che non è andato come i due avevano pensato o avrebbero voluto. “Questo 'speravamo' – ha affermato – mi lascia sempre un po' di amaro in bocca, perché dipinge una certa delusione, un certo sconforto, una certa stanchezza, forse non fisica, ma motivazionale. Zeni ha spiegato come in fondo i due si lamentano con il compagno di strada mentre si allontanano da Gerusalemme, “emblema della Chiesa nascente”, scandalizzati dal fallimento del Messia nel quale avevano sperato che ai loro occhi appare irrimediabilmente sconfitto, manifestando in tal modo una “speranza imperfetta”. In quel lamentarsi il relatore ha inteso cogliere quello che fra la gente rappresenta sempre più spesso un modo di dire e fare, uno stereotipo dell'uomo deluso che “lascia la Chiesa” considerata “incapace di offrire qualcosa di significativo e importante”.
Emmaus assurge in tal modo a “misterioso villaggio di periferia, simbolo delle tante periferie di oggi, fisiche o spirituali, così care a papa Francesco”. “Forse – ha osservato – la Chiesa è apparsa troppo debole, troppo lontana dai loro bisogni, troppo povera per rispondere alle loro inquietudini, troppo fredda nei loro confronti, autoreferenziale, prigioniera dei propri rigidi linguaggi, un relitto del passato, insufficiente per le nuove domande, pronta a rispondere per l'infanzia dell'uomo, ma non per l'età adulta?”
La proposta alternativa di don Stefano a questo modo di pensare e giudicare è quella di una Chiesa in grado di far compagnia, di accompagnare la gente lungo il suo cammino, che non ha la sindrome dell'assedio, aperta all'incontro con le persone nella loro strada, in grado di inserirsi con delicatezza nella loro conversazione, sull'esempio di Gesù con i due di Emmaus. “Serve – ha ribadito – una Chiesa, che abbia voglia di fermarsi davanti alla parola di Dio, seriamente e senza fretta”.
Circa i requisiti di un simile modello di Chiesa il relatore ha indicato quello di comunità ravvisabile in “ognuno di noi, con la nostra storia, il nostro vissuto”, mettendo al bando scuse, deleghe, ma anche lamentazioni, sconforto e delusioni. La speranza al contrario – ed è questo l'invito finale alla riflessione del biblista – abita al presente e non al passato, come il verbo “speravamo” induce a pensare, in termini di resa, di sconfitta cui va contrapposta la voglia di fare qualcosa, di non arrendersi, di andare avanti.
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