La buona battaglia di padre Franco Bertò

Missionario comboniano in Uganda da 42 anni, padre Franco Bertò racconta la “sua” Africa

Padre Franco Bertò, originario di Spormaggiore, è rientrato qualche settimana fa dall’Uganda. Ha vissuto e lavorato prima nella capitale, Kampala, e poi al sud, al confine con Ruanda e Congo. È missionario comboniano, da 42 anni in Uganda: una vita per l’Africa, e non è proprio un modo di dire, questo, per lui, ma una realtà corroborata da tanti anni di servizio con i più dimenticati, i più esclusi. Negli ultimi mesi è stato impegnato nella costruzione di scuole elementari – piccoli manufatti coagulo di ragazze e ragazzi, il futuro per quelle micro società – in posti che sono davvero isolati e anche per questo poveri, gente abituata ad una vita ridotta all’osso, alle poche cose essenziali – quando ci sono, ed è già una fortuna! – che servono per la sopravvivenza quotidiana.

Sono villaggi in cui si vive di quel poco che si produce: banane da cuocere, fagioli. “Chi riesce a lavorare nelle piantagioni di tè – osserva padre Franco – riceve a malapena il corrispondente di 50 euro al mese. La gran parte dei giovani sono senza lavoro. “E non parliamo delle donne; una che lavora come cuoca per i maestri nelle scuole elementari riceve, oltre ai pasti, circa 20 euro al mese”.

È la situazione complessiva che rasenta uno stato di povertà per noi forse inimmaginabile: “Il 90% delle persone vive ancora in capanne di pali e fango. E pensare che occorre dire che c’è stato “sviluppo” rispetto a poco tempo fa quando le capanne avevano il tetto di paglia e quando c’era anche un temporale scoperchiava il “tetto” e portava via tutto!”. In questo contesto i missionari vivono le stesse difficoltà della gente, la stessa vita quotidiana, le stesse speranze di migliorare: “Aiutiamo la gente a fare il tracciato per le strade in terra battuta dove possano trasportare in bicicletta i grappoli di banane al mercato e siamo su colline ripide e sassose.”

E’ una vita molto semplice, molto faticosa. Per costruire le aule della scuola serve un lavoro di concerto che vede tutti impegnati. Chi raccoglie i sassi sulla collina; i mattoni si preparano dove si trova l’argilla; si coglie l’acqua dal ruscello più vicino muniti di taniche, non esiste sorta di acquedotto, immaginarsi! P. Franco dice che ogni aula costa un bel po’, circa tremila euro, soldi che i missionari raccolgono in Italia da persone sensibili a questo tipo di problemi. Quando si tratta di costruzioni più complesse – la struttura in ferro per un salone o una chiesa o un ponte – allora arriva l’aiuto dei volontari trentini che vanno in missione per un mese magari quello delle loro ferie. Sono falegnami, elettricisti, meccanici, carpentieri, un mondo dell’artigianato poco aduso alle chiacchiere e sempre pronto a dare una mano quando c’è bisogno, non si tirano certo indietro. Di questo p. Franco è molto contento e fiero, è un legame tra il “suo” Trentino, la sua terra d’origine, e la sua terra d’adozione, l’Uganda, per cui ha speso e spende la vita. In zone che per varie ragioni – geografiche e anche di clim a- sono rimaste, secondo lui, tagliate fuori dal resto del mondo e conseguentemente da ogni tipo di sviluppo. Per cui pure il contesto sanitario è molto precario e frammentato, con le medicine che si devono pagare e i soldi a disposizione sono pochissimi, non esiste pensione di sorta e quindi nessun aiuto per anziani e disabili. Forse non lo sappiamo o forse sì e ce ne scordiamo facilmente, ma francamente fa bene sentire ripetere queste cose, si comprende quali sono davvero le cose importanti della vita, allarga l’orizzonte, ridimensiona questioni a cui diamo somma importanza e invece ne hanno davvero ben poca.

P. Franco ci tiene anche a sottolineare che il presidente ugandese è al potere dal ben 28 anni. Che compera il voto delle persone con piccole donazioni – dunque: quale democrazia? – ma almeno è riuscito finora a contenere l’espandersi del fondamentalismo islamico che pure nelle aree limitrofe si diffonde a dismisura. Questo missionario è pure consapevole che tipi come lui, disposti a “buttare” l’intera vita per questi ideali, ce se sono sempre meno e dunque gli preme preparare sul posto il terreno per il domani. Preparare i laici ad assumersi le loro responsabilità, guidare la comunità, gestire le incombenze. Quelli che lui chiama i “laici evangelizzatori nella chiesa locale”. C’è serenità nelle parole di questo missionario comboniano, la consapevolezza di aver fatto il proprio dovere di cristiano e ricalcando le parole di Paolo a Timoteo – aver combattuto la buona battaglia, aver conservato la fede.

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