Pace, riconciliazione e perdono sono risultate le parole chiave degli 11 discorsi di Francesco nel suo terzo viaggio apostolico in Corea, dopo Brasile e Israele. I temi della guerra e della pace hanno continuato a tener banco anche durante il viaggio di ritorno a Roma sotto l'incalzare di domande da parte dei giornalisti al Papa, impegnato per più di un'ora in risposte che confermano le grandi novità nella Chiesa che ogni giorno si dischiudono con Bergoglio dietro la spinta di eventi mondiali od anche puramente legati alla sua attività pastorale.
Neppure per un istante il Papa ha potuto distogliere la sua attenzione dai gravissimi fatti dell'Iraq, ma anche dai troppi focolai di guerre e violenze tanto da indurlo a far propria la convinzione degli analisti militari circa la terza guerra mondiale in corso nel mondo con un asserzione senza pari: “il mondo è in guerra dappertutto”… “è un mondo di guerra dove si commettono grandi crudeltà, specialmente verso i bambini.”
Sotteso dunque, e non per sola curiosità, l'interrogativo sul come mettere a tacere aggressori e armi, vista la posizione intransigente assunta dalla Chiesa contro qualsiasi guerra e la tipologia relativamente nuova di quella combattuta in Iraq, di aggressione, di conquista, occupazione e sterminio delle minoranze, di tutte le minoranze e non solo di quella cristiana.
“Gli aggressori 'ingiusti' – ha ripetuto Francesco – come quelli in Iraq, vanno fermati. Non dico con le bombe, però bisogna valutare con quali mezzi: e con una decisione delle Nazioni Unite”, come è già accaduto nel passato, e non di un solo Paese, come pure è già avvenuto con effetti devastanti. “Sottolineo – ha rimarcato – il verbo 'fermare' l'aggressore 'ingiusto'. I mezzi con cui fermare vanno valutati. Qualche volta, infatti, sotto questa scusa di fermare l'aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una 'bella guerra di conquista'. Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto. E' all'Onu che si deve discutere come darlo. Fermare l'aggressore ingiusto è un diritto dell'umanità e anche un diritto dell'aggressore essere fermato, perché non continui a fare del male”. Nell'esemplificazione circa l'operato della Santa Sede di fronte alle tragiche notizie da Mosul, Francesco rivela l'effettuazione di un incontro a Roma con i collaboratori e l'invio di una lettera a tutti i capi di Stato, mediante le nunziature, e al segretario generale dell'Onu, con la valutazione, alla fine scartata, di un suo viaggio nelle zone delle ostilità, optando in alternativa per l'invio di un suo rappresentante il cardinale Filoni: “In questo momento non è la cosa migliore da fare, ma sono disponibile” così come ha confermato la disponibilità per un viaggio in Cina. Le richieste piovono però da ogni parte del mondo, dal Messico, dalla Spagna e Portogallo, dai Paesi asiatici mentre è ormai imminente il viaggio in Albania (21 settembre), convinto dal grande passo in avanti del Paese passato dall'anticristianesimo più bieco (1820 chiese ortodosse e cattoliche distrutte sotto il comunismo) ad un governo di unità nazionale, in Laos e Filippine all'inizio del 2015. Dopo i telegrammi alla Cina durante il sorvolo dello spazio aereo cinese, le espressioni di simpatia per il suo popolo “bello e nobile, popolo saggio” che i gesuiti hanno conosciuto ed apprezzato con il missionario gesuita Matteo Ricci. “Se io ho voglia di andare in Cina – ha risposto ad un giornalista – Ma sicuro! Anche domani”.
Confidenza per confidenza il Papa ha poi espresso il proprio convincimento sul fatto dell'”emerito” per un Papa che da scelta eccezionale dovrebbe diventare una procedura normale, come lo è stato per i vescovi. “Io penso che il Papa emerito è già un'istituzione, perché la vita si allunga e a una certa età non c'è più la capacità di governare bene e di affrontare i problemi di un'istituzione come la Chiesa. Se poi mi chiedete: “E se lei un giorno non se la sentisse? rispondo: “farei lo stesso”.
Infine circa le sottili critiche e contestazioni di fallimento dell'incontro di preghiera in Vaticano con i presidenti israeliano e palestinese, visti i risultati della guerra di Gaza, riesplosa in tutta la sua drammaticità nelle ultime ore, dopo una breve tregua, questa la risposta del Papa: “Si deve pregare. La pace è un dono, e va meritata anche con il nostro lavoro. Adesso il fumo delle bombe non lascia vedere la porta. Ma la porta è aperta. Il Signore la guarda”. Di porte il Papa in questo viaggio ne ha spalancate e indicate molte altre. Resta il tempo per capirlo.
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