La Libia nel caos

Violenza e instabilità politica. Lo scontro tra i movimenti integralisti islamici e le fazioni “laiche” filo-occidentale getta il Paese nell'ingovernabilità. L'impegno dei cristiani sul fronte dei migranti

Uno scenario “somalo”, cioè di estrema frammentazione del territorio, e di disgregazione dell’identità collettiva della popolazione che lo abita. Così appare oggi la Libia. Come la Somalia, senza un potere centrale riconosciuto e legittimato dall’opinione pubblica interna e internazionale. Dopo la caduta della dittatura di Gheddafi e la morte cruenta e macabra dell’uomo che per oltre un trentennio ha incarnato un’interlocuzione privilegiata con tutto l’Occidente, la Libia è progressivamente regredita nell’ingovernabilità più stridente ed evidente. Che vuol significare mancanza di sicurezza e di un equilibrio minimale dei poteri che conforma gli Stati sia pur vagamente democratici.

E così l’intervento militare esterno che doveva dare la spallata risolutiva alla fine del regime del rais di Tripoli e la transizione verso un sistema di maggiore rappresentatività si è trasformato in un effetto inatteso e non voluto, l’esatto reciproco antidemocratico, una sorta di boomerang che ha lasciato interdetti gli stessi fautori dell’interferenza esterna, in primis la Francia, ma non solo, essendo in buona compagnia di tutte le potenze occidentali.

Sta di fatto che, grossomodo, possiamo ridurre le tante spinte centripete che solcano il territorio libico in due moti magmatici o due poli che si fronteggiano. Da una parte i variegati movimenti islamici di volta in volta antagonisti ed alleati a seconda delle circostanze ma caratterizzati tutti dall’insofferenza per altre visioni di vita e della società – e di conseguenza, della politica- che non siano riconducibili all’osservanza stretta della sharia, la legge islamica ben nota e conosciuta in forme aberrante ad esempio in Sudan. E dall’altra le fazioni, i gruppi e le congreghe non confessionali che si rifanno al sogno di una Libia “laica” e filo-occidentale.

Lo scontro tra queste due linee di indirizzo, di fatto, sta portando giorno dopo giorno alla paralisi dello stato e ad una situazione di guerra guerreggiata ad altissima instabilità politica e conseguentemente economica. Le forze islamiche controllano l’Assemblea nazionale, paralizzandola, così come pure alcuni centri nevralgici delle aree dei pozzi petroliferi.

I cristiani in Libia – in questo terribile scenario non scevro da notizie nefaste- resistono per quanto possono e vivono come un “piccolo gregge” nel comportamento e nella testimonianza. Ed è sul fronte dei migranti che varie comunità religiose sono fortemente impegnate. Gli immigrati che le autorità libiche trattano come mera merce di scambio senza alcun rispetto per i diritti umani fondamentali che spettano ad ogni persona e che gli stessi cittadini libici sfruttano per quanto possono (con esosi affitti per le povere stanze che abitano in attesa degli sbarchi della fortuna). Ma il fondamentalismo islamico che sta attuando una sorta di “politica del carciofo” (un pezzo alla volta guadagnano sempre più terreno con le maniere spicce) mette sempre più a repentaglio la sopravvivenza stessa di queste specie di avamposti dei diritti umani e di limpida testimonianza cristiana. In Cirenaica, ad esempio, gli islamisti più estremi fanno terra bruciata e a Derna dove le suore erano presenti da tanto tempo hanno dovuto andarsene. Come pure a Tobruk, dopo ripetute e insistite minacce. Resistono a Bengasi, ma fino a quando?

In un contesto in cui non si sa bene chi abbia ancora una minima autorità è anche difficile rivolgersi a qualcuno per protestare o semplicemente far presenti le proprie ragioni. Così si fa largo la legge della giungla, la legge del più forte e sono davvero ammirevoli quelle poche suore, e anche per lo più anziane, che continuano a dare assistenza e appoggio ai migranti e alla gente più povera, molto spesso incuranti del pericolo. Lo fanno semplicemente perché è il loro modo di intendere l’essere cristiane. Non scordiamole.

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