“I cristiani sono chiamati ad essere testimoni della possibilità di superare gli odii umani, vivendo in pace e solidarietà con gli altri”
Be’er Sheva – In Israele e Palestina sono giorni di grande ansia e sofferenze. Le prospettive restano incerte e le soluzioni non si fanno vedere. Nel Sud di Israele, nella comunità di Be’er Sheva, l’antica Bersabea, è parroco da alcuni anni don Gioele Salvaterra, giovane sacerdote bolzanino. “La comunità di Be’er Sheva – ci dice – conta un centinaio di fedeli provenienti da luoghi ed ambienti diversi: famiglie arabe-cristiane della Galilea che si sono trasferite qui per motivi di lavoro, rifugiati e migranti, un grande gruppo di cristiani dall’India, che lavorano come badanti, studenti stranieri e persone che si trovano qui per motivi di lavoro o familiari”. “Come parroco di questa comunità – spiega don Gioele – il mio compito è prendermi cura di queste persone per quanto riguarda la vita sacramentale, la vita religiosa, stando attento ai bisogni spirituali e anche fisici di ognuno. Inoltre, vivendo in una città in cui i cristiani sono la minoranza, vedo come mio compito anche il dialogo interreligioso della vita quotidiana (soprattutto con gli ebrei). Il dialogo intellettuale e teologico non è possibile in una città come Be’er Sheva, ma è possibile il dialogo del vivere insieme, dell’ascoltarsi gli uni gli altri, del vivere con l’altro le gioie e i dolori”.
Che cosa sta accadendo in questi giorni così tesi nella vostra città?
Le attività sono ridotte, la gente cerca per quanto possibile di evitare di uscire di casa e pone attenzione nel trovarsi sempre nelle vicinanze di un rifugio. La paura e la tensione sono palpabili.
Come reagisce la piccola comunità cristiana?
La comunità vive queste giornate come gli altri cittadini. Chi può è partito (le famiglie della Galilea sono tornate ai paesi d’origine) e tutti pregano per la pace. Domenica abbiamo celebrato, con una quindicina di persone (i rimasti in città che hanno avuto il coraggio di uscire), la santa Messa in una stanza protetta dai missili, elevando preghiere per la pace e per tutte le vittime di questo conflitto.
Come accoglie, la comunità, i ripetuti appelli del Papa?
L’attenzione da parte del Papa alla sofferenza di questa regione è molto importante per i fedeli della comunità, che sentono così il sostegno della Chiesa nelle loro sofferenze e nelle loro difficoltà. Si sentono incoraggiati nel proseguire a vivere la loro fede con speranza e fiducia nel Signore.
Che cosa può fare, in generale, la comunità cristiana per contribuire a che si verifichi il miracolo della pace (o almeno cominci un cammino autentico di dialogo)?
Credo che siano due le cose principali che i cristiani possano fare per contribuire al miracolo della pace: la prima è la preghiera, che porta certamente frutto anche se non nell’immediato e che ci invita a non dimenticare mai la speranza e l’ideale di un mondo di pace. In secondo luogo i cristiani sono chiamati ad essere popolo in dialogo, testimoni della possibilità di superare gli odii umani, vivendo in pace e solidarietà con gli altri. Questa apertura quotidiana all’altro è l’inizio necessario e fondamentale di ogni processo che voglia portare alla pace.
Lascia una recensione