Il racconto di Marta, ostetrica impegnata con passione in progetti di promozione della salute materna e infantile
Marta è ostetrica, ha lavorato per 42 anni negli ospedali di Verona, lei che è nonesa di Cavareno, con qualche intervallo all’estero: cooperazione internazionale, ministero degli Esteri in Palestina, Croce Rossa Italiana e Internazionale in Albania e Kossovo e altre missioni. Sempre in progetti di promozione alla salute, in particolare quella infantile e di sostegno alle mamme. E’ la voglia di conoscere altre realtà e di aiutare gli altri che ha sempre animato questa donna partita dalla Val di Non. Vedere come la maternità e la nascita venivano vissuta nel resto del mondo.
“Ho imparato come la nascita è vissuta in altre culture, da donne semplici, l’ostetricia ‘umana’“, dice. Credenze, miti, superstizioni che circondano la nascita, riti ancestrali. Veramente tutto la interessava per mettere a confronto le nostre sale parto alle capanne o alle povere sale parto di piccoli ospedali o dispensari sperduti tra le montagne e nelle foreste. Ha toccato così con mano e vissuto situazioni di estrema povertà e vulnerabilità, la mancanza di qualsiasi diritto e così ha maturato la decisione di dare una mano, donando tempo ed energie per promuovere il diritto alla salute e il diritto alla vita.
“Ho scelto di vivere vicino ai poveri, senza la presunzione di cambiare il mondo, ma con la speranza di cambiare il mondo di qualcuno”. Marta ha conosciuto la lotta quotidiana per la sopravvivenza in un paese che stenta a ricominciare e a superare un passato ingombrante; il faticoso cammino della pace che incoraggia la vita; il ritorno alla normalità giorno dopo giorno, la pace che allevia le sofferenze, offre il perdono: “Di questo ha ancora tanto bisogno questo popolo dopo la devastante guerra civile: ricostruire il tessuto sociale, riprendere fiducia“.
Sofferenza e morte
Arrivata alla pensione, Marta ha avuto l’opportunità di andare in Burundi a lavorare in un ospedale nel nord, per fare formazione al personale infermieristico locale. “Non ho avuto esitazioni e sono partita. Qui si parla francese (era una colonia belga) ed ho dovuto studiarlo velocemente, senza trascurare qualche nozione di kirundi, la lingua parlata nel paese (è una lingua bantu)“.
Sono già trascorsi otto anni: strano destino di una pensionata.
“Quello che mi colpito all’inizio è stata la rassegnata accettazione della sofferenza e della morte. Questo paese ha una percentuale di mortalità materna molto alta, una delle più alte del mondo: 500 donne muoiono su centomila nati vivi”. Cifre sottostimate perché ancora un buon 45% di donne partorisce a casa e se qualcuna muore non viene segnalata su nessun registro. Le morti materne lasciano strascichi distruttivi nella famiglia e nella società: migliaia di orfani che, aggiunti agli orfani a causa dell’Aids, sono circa 680.000 (dati UNICEF del 2013).
“Lavoro nelle sale parto per trasmettere la mia esperienza di ostetrica (qui non esistono ostetriche), ma anche per promuovere il diritto delle donne ad essere assistite con rispetto e competenza, indipendentemente dall’etnia, la religione, il livello sociale“.
Quando si va in Africa si hanno grandi progetti, grandi sogni, l’entusiasmo che viene dal volere cambiare le cose, osserva ancora Marta. “Arrivata in Africa per qualche mese osservi, chiedi, vedi in prima persone quello che tu credi che a loro manchi e poco a poco la tua presunzione si sgonfia, ti rendi conto che la realtà va ben oltre le tue aspettative. Allora è il momento di rimboccarsi veramente le maniche, non lavorare per loro ma insieme a loro, accettando le loro critiche e i loro consigli, discutendo per trovare soluzioni locali”.
Rimboccarsi le maniche
E’ così che Marta ha sperimentato l’impotenza e, umilmente, si è accontentata dei piccoli passi, senza abbandonare l’impegno verso i poveri, verso i bambini in particolare.
“Arrivi pensando di poter cambiare le cose, magari portando la nostra medicina e il nostro ‘sapere’. Arrivi con tutte le buone intenzioni di trasmettere le tue conoscenze, ma poi abbassi subito la cresta: ti ‘inculturi’”.
Ci si deve adattare alle carenze di medicinali e di materiali, si fa con quello che c’è. Nella vita di tutti i giorni non è stato difficile l’adattamento: alimentazione povera, ma sufficiente e ricchissima di frutta, il clima è buono, l’ambiente gradevole, la gente cordiale, moltissima vegetazione e verde, acqua in abbondanza (piove 9 mesi all’anno). Certo, ci sono delle restrizione negli spostamenti, c’è molta malavita a causa della povertà e dell’insicurezza sociale e politica. Non si viaggia e non si esce di sera (dopo le 6 quando scende la notte). Nella capitale Bujumbura è diverso, ci sono molti occidentali e molta vita mondana, ma nell’interno l’elettricità è quasi inesistente e anche nell’ospedale c’è il gruppo elettrogeno quando c’è gasolio, altrimenti pile o lampade a petrolio.
“E’ più difficile – dice ancora Marta – adattarsi alla povertà, alla sofferenza di adulti e bambini”. E’ ancora molto forte la fiducia nei guaritori tradizionali e nella stregoneria. La maggior parte della gente dei villaggi va prima dal guaritore e poi in ospedale. Molti di questi guaritori sono dei ciarlatani e fanno danni incredibili. Molti credono nella stregoneria, anche persone istruite.
Non rassegnarsi alla povertà
“All’inizio mi scandalizzavo vedendo donne che abbandonavano i neonati, che si rifiutavano di allattare uno di due gemelli, che abbandonavano il figlio malato all’ospedale e partivano senza lasciare traccia. Lentamente ho capito che la povertà e l’ignoranza non era mio potere giudicarla. Le donne hanno una natalità molto alta, attualmente 6 – 7 figli. Ora la sopravvivenza dei bambini è molto migliorata: dal 2000 la mortalità infantile si è dimezzata con la gratuità delle cure fino ai 5 anni e con tutte le vaccinazioni esistenti”.
Vengono dalla “muganga muzungu”, il medico bianco, anche per farsi curare, ma soprattutto per chiedere un aiuto: riso, farina di manioca, del sapone, per pagare un esame di laboratorio o per comprare le medicine. Le cure costano molto per le loro tasche, se poi sono ricoverati spesso sono costretti a vendere l’unica mucca o la capra per pagare.
“Capisci che non cambi l’Africa, non puoi incidere sulla causa della povertà. Magari fosse possibile avere una ricetta per curare tutte le sofferenze esistenziali di tanta gente!”.
“Vorresti avere i mezzi per aiutare tutti, puoi farlo per qualcuno, ma è impossibile quando la povertà così diffusa. E’ raro che dicano grazie, non è perché non sono riconoscenti, non è nella loro cultura. Ma ti si apre il cuore quando vedi un largo sorriso, vale molto di più di un grazie, vale una giornata di faticoso lavoro, vale una bella dormita, e prima di addormentarti ringrazi il Signore di essere in un letto comodo e con la pancia piena: Signore ti prego, fa che tutti i poveri che mi circondano abbiano un tetto, una coperta e un piatto di riso. Fa freddo anche in Africa a quasi 2000 metri di altitudine!“.
Quando è il momento del raccolto le donne portano qualche frutto, un sacchetto di fagioli o di piselli o di arachidi bollite, qualche uovo. E’ obbligatorio accettare e mettere nel cestino una maglietta, un paio di pantaloncini, un paio di ciabatte (tutta roba arrivata dall’Italia con il container), chiedono i soldi per comprare la divisa per la scuola (cinque euro) o per il materiale scolastico: qualche quaderno e una penna… E’ questa l’Africa di Marta.
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