Agnese, 30 anni, incontra l’Operazione Colomba dell’Associazione Papa Giovanni XXIII. E oggi è immersa nelle contraddizioni di un conflitto che non ha fine
Agnese ha 30 anni. Una laurea in Scienza dell’educazione, ha lavorato per diverso tempo con ragazzi problematici. Le è capitato poi di “incontrare” l’Operazione Colomba e ne è rimasta affascinata. Tanto da rendersi disponibile donando il suo tempo direttamente nelle zone di conflitto. E’ stata recentemente tra i profughi siriani, frutto di quell’immane tragedia che va avanti da più di due anni spesso nell’indifferenza del mondo. “Abbiamo operato nell’area a nord del Libano denominata Akkar – dice Agnese – e abbiamo scelto quest’area perché è una tra quelle con la più alta concentrazione di profughi siriani”. Usa il plurale, Agnese, un segno del progetto d’insieme che anima il gruppo.
“Abbiamo vissuto in un campo profughi a Bebnine e in un garage a Talabbas (entrambi piccoli paesi) in una via in cui tutte le abitazioni al piano terra hanno un garage e tutti i garage sono abitati da profughi siriani”.
Bebnine è un villaggio a prevalenza musulmana sunnita, mentre Talabbas è un villaggio misto abitato da cristiani ortodossi e da musulmani sunniti, tendenzialmente anti Assad, a fianco del quale c'è un villaggio di musulmani alawiti, tendenzialmente invece pro Assad.
E’ stata scelta quest’area anche per riuscire ad incontrare tutti e avere un punto di vista il più possibile completo, di superamento delle divisioni. Ci sono circa 18 minoranze religiose in Libano e altrettante in Siria; la convivenza più o meno pacifica ha risentito in misura notevole del conflitto siriano, per cui, spesso, tra le comunità religiose non ci sono comunicazioni o ci sono rapporti di forte tensione, quando non direttamente conflittuali.
“Chi sta nelle tende – continua Agnese – mantiene la dimensione della comunità. I campi sono più facilmente individuabili anche dall’esterno e quindi è più facile che siano serviti da ONG (Organizzazioni non governative), però le tende sono fredde d’inverno e calde d’estate: hanno strutture in legno ricoperte di plastica e di cartoni e poi di nuovo di plastica, i bagni sono dei buchi per terra con quattro pareti di legno o di tela per ripararli”.
E prosegue: “Tutte le famiglie che vivono nei campi devono pagare un affitto e sopravvivono con piccoli lavoretti fatti ogni tanto, come facchino e muratore. I garage sono un po’ più protetti, perché si possono chiudere a chiave e spesso hanno l’acqua corrente, però costano molto di più e le persone che vi abitano sono più isolate ed è più difficile che siano raggiunte dalle Ong. Queste ultime infatti dovrebbero fare un servizio porta a porta che però non riescono a svolgere. Inoltre c’è una dimensione di vicinanza maggiore con il padrone di casa libanese, con vantaggi se la relazione è buona e se si instaura un aiuto reciproco, ma con grandissimi svantaggi se la relazione è cattiva perché potrebbe sfociare in abusi di vario genere”.
Come sempre, per Operazione Colomba il metodo di approccio è quello della condivisione. Queste ragazze e questi ragazzi vanno a vivere con le vittime dei conflitti, condividendo la loro quotidianità.
“Abbiamo cercare di dimostrare con le nostre vite che per noi in tutta questa tragedia non c'è nulla di più importante di loro: le persone che subiscono la guerra”. Ecco perché hanno vissuto e vivono con chi è stato scacciato di casa, con chi non ha più niente. Soprattutto li ascoltano, ascoltano i loro racconti, le loro storie, storie di persone che hanno perso tutto, sono state depredate del loro passato e davanti non hanno nessun futuro certo. Per quanto possibile, si può dire che cercano di dare un nome e un volto a quei numeri di per sé asettici e freddi: 3 milioni di profughi. “Nessuno li vuole, nemmeno noi qui in Italia”, osserva Agnese.
“Abbiamo anche cercato di creare degli spazi di incontro tra persone che vivono fianco a fianco ma non si parlano e non si relazionano. Ad esempio siriani e libanesi che si incontrano nel nostro garage per parlare di problemi comuni o per scambiare quattro chiacchiere mentre fuori non si rivolgono la parola”.
Dare speranza a ciascuna di quelle persone. Farle sentire ascoltate e quindi importanti. “Quello di cui hanno bisogno è tutto: bagni, case decenti, cibo, scuola ma soprattutto speranza e futuro perché molti di loro non hanno più il coraggio di sperare in niente e vorrebbero solo lasciarsi andare…”.
(a cura di)
Lascia una recensione