La ricetta di “Carlìn” Petrini per un futuro più “buono, pulito e giusto”
Che cosa c’entra quel prezzemolo che abbiamo in frigo da settimane con l’economia politica? E quella conserva con sopra quel leggero strato di muffa, che aumenta giorno dopo giorno, che cosa ha a che fare con la felicità? Parlare di gastronomia non significa soltanto parlare del buon mangiare o sapere chi ha vinto l’ultima edizione di masterchef; parlare di cibo vuol dire parlare di biodiversità, di lotta al potere, di bene comune, significa parlare di sovranità alimentare e dei migranti che muoiono al largo di Lampedusa.
Già perché la gastronomia è una scienza olistica, complessa e interdisciplinare, come ha subito tenuto a precisare Carlo Petrini – il gastronomo piemontese fondatore del movimento Slow Food – intervenendo venerdì 9 maggio alla conferenza organizzata a Lettere dal Club Alpbach (neonata associazione di universitari) che ha affrontato il tema del “futuro del cibo”. La gastronomia è chimica, fisica, è biologia, genetica, salute (e questo lo diceva già Ippocrate nel quarto secolo avanti Cristo). Ancora: la gastronomia è storia, antropologia, identità culturale dei popoli; è ecologia e studio dell'ambiente. Questa visione fa giustizia alla considerazione sempre più ludica e “spettacolistica” della gastronomia che ci arriva dalla tv, dove “a qualsiasi ora del giorno e della notte c'è qualcuno con la padella in mano che parla, parla… Stramaledetti quelli che riducono la gastronomia a questo spadellamento senza senso, al letto di rucola e alle cipolle tagliate alla julienne!”. Non risparmia colpi “Carlìn” mentre racconta alla platea di giovani che la gastronomia è sempre stata ed è anche oggi economia politica: una volta si facevano le guerre per conquistare territori e poter produrre più cibo (“l'essenza del potere è governare il ventre delle persone”), oggi in Africa assistiamo al fenomeno del land grabbing, l'accaparramento delle terre da parte delle multinazionali, della Cina, degli Emirati arabi per produrre cibo o biocarburante, terre che rappresentano la sopravvivenza dei piccoli contadini che le coltivano e che da un giorno all'altro si trovano senza niente; negli ultimi sei anni, grazie alla complicità di governi canaglia, sono stati svenduti sessanta milioni di ettari. “E qualcuno si domanda perché stanno arrivando disperati da questo continente, mettendo in conto che possono morire nel mar Mediterraneo. E non sappiamo quanti ne muoiono nel Sahara”. Oggi non è ancora garantito a tutti il diritto al cibo, un diritto civile primario.
Per capire cosa ha a che vedere il cibo con la giustizia sociale e ambientale, occorre guardare al sistema alimentare adottando uno sguardo “planetario”, nello stile di Slow Food e Terra Madre, perché quando guardiamo nel nostro piatto saremmo sorpresi di vedere quanti chilometri ha fatto quel cibo che c'è dentro. E dovremmo saper vedere, dietro al cibo, anche “l'aspetto criminale – dice Carlìn senza mezze misure – di un sistema alimentare che sta generando degli sconquassi inimmaginabili nell'ambiente e nella socialità”.
A cominciare dalla fertilità dei suoli, drasticamente ridotta (mentre nel mondo le bocche da sfamare aumentano esponenzialmente) da 130 anni di prodotti chimici; se in un primo momento furono utili per uscire dalla povertà e dalle carestie, come sempre il troppo stroppia “e il governo del limite è la cosa più difficile. Fino a un certo punto si innesca una economia virtuosa… Oltre, l'avidità genera un processo distruttivo, che causa sofferenza, innanzitutto alla nostra terra madre”.
“Ma più grave sarà la carenza d'acqua”, avverte Petrini, ricordando con amarezza i risultati accantonati dalla politica del referendum di pochi anni fa. Quando mancherà, sarà causa di guerre, più che il petrolio; ne è un esempio oggi il conflitto israelo-palestinese. Per non parlare di quando l'acqua la avveleniamo: come nella provincia di Cuneo, dove c'è la più alta concentrazione di maiali che con le loro deiezioni hanno inquinato la falda acquifera, e quell'inquinamento entra nella catena alimentare da altre parti (l'irrigazione campi, l'abbeveraggio degli animali…) e prima o poi arriva all'uomo.
Questo sistema alimentare nell'ultimo secolo ci ha fatto perdere il 70% della biodiversità (dati FAO), migliaia di specie genetiche di animali, piante, frutta e verdura, messi da parte dal sistema, secondo una “logica nazifascista”, perché non erano sufficientemente produttive o abbastanza belle da meritare un posto sugli scaffali dei supermercati. Addio allora alle buonissime pesche da vigna per lasciare il posto alle bellissime pesche della California che “le mangi e san di niente”, addio alle mucche agerolesi che producevano solo 12 litri di latte al giorno e di conseguenza al provolone del monaco, uno dei formaggi a pasta filata più buoni del mondo. “Potrei continuare all'infinito” assicura Carlìn. Eppure la biodiversità salva la vita, ce lo insegnò la storia con la morte di 1 milione di persone in Irlanda dal 1835 al 1842 per il virus che distrusse l'unica specie di patata esistente.
Un altro problema: non ci sono più i contadini. Nel 1950 erano il 50% della forza lavorativa, oggi sono meno del 3%, di cui più della metà ultrasessantenni. Non è un caso: “dovete sapere che i contadini vengono pagati 7 centesimi al kg/ettaro, dovete essere coscienti che tra il costo del prodotto e quello che vengono pagati loro, c'è in mezzo un intermediazione che taglia la fetta della torta più grande. La “ciliegina” di questo sistema: mai nella storia dell'umanità c'è stato tanto spreco di cibo. Un miliardo e mezzo di tonnellate all'anno. Siamo 7 miliardi, produciamo cibo per 12 miliardi di viventi (dati FAO), eppure 900 milioni di persone soffrono di malnutrizione e fame. “Questa è la vergogna planetaria del nostro tempo, che ci siano persone che non mangiano mentre un miliardo e mezzo di persone soffre per ipernutrizione: obesità, malattie cardiovascolari, diabete. Sono le due facce di una stessa medaglia, di un sistema criminale”. Questo spreco, a cominciare dai nostri frigoriferi, ci rende poveri, poveri anche di felicità. “Non siamo nati per produrre e consumare, consumare e produrre. Siamo nati per essere felici! Per vivere con la nostra comunità, con le persone che amiamo, nel territorio al quale siamo legati, nella bellezza del creato. Non siamo nati per continuare in questo circolo in cui l'unica cosa che conta è far partire i consumi per far partire l'economia, ma cosa volete che consumiamo ancora? Siamo arrivati all'esagerazione, confondiamo la crescita con lo sviluppo, ma sono due cose diversissime”.
Da questa crisi “entropica” in cui ci troviamo, non usciremo se non metteremo in atto nuovi modelli di comportamento, ammonisce Carlìn, primo fra tutti la “lotta senza quartiere” allo spreco. E poi rafforzare l'economia locale (“mangiate trentino!”), sostenere la nuova generazione che si dà al biologico, essere disposti a spendere qualcosa in più, stare dalla parte dei contadini locali (come con le “community supporter” americane), informarsi; rispettare la tradizione, valorizzare il lavoro manuale. Preferire alla logica capitalista dell'accumulazione l'economia della sussistenza e la logica della condivisione, “creare comunità, mettere davanti a tutto, davanti al profitto, le persone, la socialità!”, ecco la ricetta di Carlo Petrini per il futuro.
Così, anche fare l'orto è un atto politico: “Perché predispone coloro che vogliono realizzarlo a un'attenzione verso i tempi della terra, il rispetto della diversità delle specie, che è formativo, educativo, e che cambia profondamente il nostro approccio anche nei confronti del cibo che mangiamo”.
Non si tratta di nostalgia del bel tempo antico, anzi. In questa rivoluzione è fondamentale la capacità di interagire con la scienza e le nuove tecnologie, perché le buone pratiche dell’industria sono una delle risposte positive per il cambiamento. In questo senso si è sviluppato il dibattito con Agostino Cavazza, ricercatore del CRI della Fondazione Edmund Mach, che si occupa proprio di come i risultati della ricerca prodotti a San Michele possano essere trasferiti alla produzione alimentare. Così, grazie alla ricerca, il Trentino è l'unica provincia in cui in viticoltura non si usano più insetticidi (che hanno lasciato posto al metodo della “confusione sessuale”). Il lavoro del Centro di Ricerca e Innovazione è prezioso anche nella tutela della biodiversità attraverso l'azione di custodia delle sementi affinché non vadano perse le antiche varietà locali (l'80% delle sementi nel mondo sono in mano a 5 multinazionali, e soltanto il 20% sono di proprietà delle comunità), accanto ad altre esperienze trentine come l'associazione “La Pimpinella”.
Non sono poche le associazioni, i movimenti, i singoli cittadini che stanno già provando a far vivere una nuova economia, a trasformare il mondo in un luogo abitabile per tutti. E non sono pochi i giovani che scelgono di ritornare alla terra (in sala, alla domanda di Petrini, si alzano una ventina di mani), come quei ragazzi marocchini che in un'oasi del deserto producono marmellata di datteri e la vendono via facebook alle comunità marocchine in giro per l'Europa, e piantano alberi che produrranno tra vent'anni “perché hanno nel loro cuore il futuro”. Sono esperienze di “coltivazione e custodia del creato”, dice Petrini riprendendo le parole che Papa gli ha scritto alcuni mesi fa. Si è firmato così, “fraternamente, Francesco”, “e la fraternità è un bene fortissimo, che unisce, non mi interessa se credi o non credi. La fraternità è quello che ci fa stare uniti su questa terra”.
Il profeta Carlìn non ha dubbi: “tutto deve cominciare e tutto è già cominciato”!
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