Arena di pace e disarmo, ma decisamente armato il linguaggio; come in guerra. O di qua o di là. O bianco o nero. O guerra o pace. Troppi slogan, poco studio. Il top l’ha toccato una rappresentante dei “Corpi civili di Pace” che ha denunciato tutte le operazioni di peace keeping invitando il ritiro immediato. Ma questi si assumono la responsabilità di ciò che dicono?
Mi chiedo: davvero è così semplice mettere in discussione un’istituzione senza la quale la violenza aumenterebbe a dismisura? Basta dire domani tutti a casa per risolvere i complessi conflitti nei quali sono impegnate le operazioni di peace keeping? Quali delle nostre 18 missioni nei diversi continenti è da annullare? E con quali modalità e quali tempi?
Non si tratta di appoggiare acriticamente ogni operazione di peacekeeping, ovvio, ma di chiedersi quali siano le condizioni per il ritiro e le conseguenze per le popolazioni. Inoltre, quali altre modalità devono essere messe in atto per garantire la pace nelle zone a rischio? Come prevenire tragedie come quella dei Grandi laghi?
Forse si potrebbe lavorare su altre parole: transarmo (periodi di transizione verso il disarmo), buoni uffici, diplomazia popolare/parallela/ufficiale, dialogo. La parola “forse”, appunto. Con meno sicurezze rispetto al “senza se e senza ma” che è tipico del linguaggio guerrafondaio.
E forse si potrebbe fare più attenzione a usare la parola guerra, così abusata e applicata a mille categorie da rischiare di diventare parola vuota. Voto: 4.
F.P.
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