Della vita, dell’annuncio e della comunità
“Ricordo una ragazza giapponese, di circa 18 anni. L'avevo battezzata 3 o 4 anni prima, e lei era divenuta una cristiana fervente: si comunicava ogni giorno alla Messa delle sei e mezza del mattino, a cui veniva puntualmente tutti i giorni. Dopo l'esplosione della bomba atomica, un giorno percorrevo le vie ingombre di mucchi di rovine di ogni genere. Nel posto in cui prima sorgeva la sua casa trovai una specie di baracca, sostenuta da alcuni pali e ricoperta da fogli di lamiera. Cercai di entrare: la giovane cristiana – si chiamava Nakamura – stava distesa su di una ruvida tavola un po' sollevata dal suolo coperta con alcuni stracci bruciacchiati; le quattro estremità erano diventate in tutta la loro estensione un'unica piaga. Ella si trovava da 15 giorni in questo stato, aiutata a mangiare da suo padre, anch'egli gravemente ferito. La schiena era tutta una piaga già in cancrena. Cercando di pulire l'ustione, impietrito rimasi senza parole. Dopo un po' Nakamura aprì gli occhi, guardandomi con due lacrime agli occhi e cercando di darmi la mano. Mi disse con un accento che non dimenticherò mai: 'Padre mi ha portato la comunione?'” (p. Pedro Arrupe S.I., Eucarestia e fami del mondo, pag. 25)
Questa testimonianza toccante ed essenziale ci riporta alla quarta scheda del Piano Pastorale diocesano dal titolo Fate questo in memoria di me (1 Cor 11,24) e ci fa pensare alla nostra relazione con l’Eucaristia e all’ultima cena con Gesù, che in questi giorni più volte ricordiamo solennemente e che ci stupisce sempre per il contesto del tradimento in cui si svolge. Eppure Gesù, che conosce i cuori degli uomini che gli stanno accanto, non rinuncia a fare la Pasqua, decide di mangiare con loro, di condividere con loro la festa – follia della croce. Chiede di poter festeggiare nella stanza superiore, quella riservata alla preghiera, quella del nostro cuore. In quella stanza Gesù si fa pane: il cibo quotidiano dell'uomo, quello che il Signore non ha fatto mancare al suo popolo nel deserto, quello che risponde al desiderio basico di ognuno. E in quella stanza Gesù si fa vino, quello che non può mancare alla festa, quello che da sapore e che è segno di gioia. Diviene cosi piccolo e quotidiano da poterci accompagnare sempre, e noi abbiamo bisogno di quel pane e di quel vino, abbiamo necessità di sedere a quella mensa, perché abbiamo bisogno del Suo amore, del Suo perdono, del Suo senso, perché anche noi a sua volta possiamo, entrando in comunione con Lui, trasformati da Lui, diventare risposta ai bisogni degli altri, speranza, significato nella nostra vita e con la nostra vita.
Giuliano Rizzi
Commissione diocesana Pastorale sociale, Giustizia e Pace, custodia del Creato
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