Se c’è una caratteristica fondamentale che connota alcuni giovani scrittori africani è quella di essere impegnati anche sul fronte dell’editoria: vogliono che i diritti delle loro opere rimangano in Africa contrastando in qualche modo il monopolio dei grandi editori multinazionali. E’ una rivendicazione che va nella scia di una voluta, cocciuta, palesata riscoperta della loro “africanità” che poi significa rivendicare anche la dignità della scrittura e della lingua autoctona e quindi – in definitiva – la dignità dei popoli africani. E tutto ciò a partire da quel dato costitutivo che è il combinato disposto di almeno tre elementi: in primis, il vissuto collettivo postcoloniale; poi, le continue migrazioni interne al continente; e infine, ma prima per importanza, e la voglia di riscatto che può e deve sortire dalle singole individualità. E tre libri, due recenti e uno di una decina d’anni fa, ci sembrano significativi di un percorso assai originale, perché scavano nell’Africa postcoloniale, nella sua complessità fatta di tribalismi e conflitti etnici ma pure della ricerca di identità nazionali ben definite, almeno nelle intenzioni.
In “Ualalapi” – il nome di un guerriero dell’antica memoria mozambicana – lo scrittore Ungulani Ba Ka Khosa fa rivivere un tratto di storia in cui si mescolano le narrazioni e le voci mozambicane con quelle portoghesi, in un percorso storico che cerca di dare voce alle situazioni più disparate, mai dimenticando però chi erano i colonizzatori – dunque collocando ben distintamente gli oppressori e gli oppressi – e quale ruolo hanno ricoperto i dominatori lusitani per tanti decenni nel paese, forgiando identità contraffatte e soffocando in primo luogo le coscienze più originarie.
In “Senza fermata”, invece, Simao Kikamba, nato in Angola ma poi emigrato con la sua famiglia in Congo, narra le vicende di Manuel Mpanda, un giovane uomo che da Kinshasa vuole ritornare nella capitale angolana Luanda. Si sposa con Isabel ma le vicissitudini legate alla sanguinosa guerra civile lo spingono di nuovo ad andarsene e stavolta con destinazione Sudafrica in cerca di un lavoro per mantenere la sposa e la figlia nata da poco. Ma a Johannesburg Manuel viene a contatto con un mondo ostile e quello che credeva un sicuro approdo, nel “nuovo” Sudafrica, si rivela un contesto fortemente intriso di razzismo e atteggiamenti xenofobi che la fine dell’apartheid non è riuscita a scalfire e superare nel segno del rispetto e della fratellanza. E il titolo “Senza fermata” rivela, appunto, quasi una condanna ad un continuo peregrinare, una condizione di molti oggi in Africa e intendiamo in questo contesto letterario una migrazione tutta interna al subcontinente. Simao Kikamba vuole denunciare che non esistono situazioni ideali e perfette, che occorre sempre lottare e battersi per migliorare le proprie condizioni materiali di vita e che anche le più nobili cause, le rivoluzioni più limpide, lasciano strascichi e condizionamenti inevitabili.
In “Il ragazzo che catturò il vento” viene riportata la vicenda, a suo modo straordinaria, di un ragazzo africano, William Kamkwamba, nato nel 1987 in Malawi, che dopo un’infanzia vissuta in povertà e con una micidiale carestia che incombe, decide di dedicare la sua intelligenza e le sue doti per una causa collettiva. Con pochi materiali frutti di scarto – una mezza bicicletta, ingranaggi di motore e pezzi di metallo raccolti in una discarica – riesce a “imbrigliare” il vento e a trasformarlo in energia, luce, acqua. Nessun sortilegio, ma il proprio genio messo a disposizione della gente del suo villaggio rurale. William è diventato un simbolo di un’Africa desiderosa di riscatto. Il segno che le energie pulite possono essere valorizzate e creare valore aggiunto, la possibilità di un altro modello di sviluppo.
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