E’ iniziato con il botto il Centenario della Prima guerra mondiale che fino al 2018 impegnerà il Trentino in una serie di iniziative e progetti a memoria del conflitto che dal 1914 al 1918 insanguinò l’Europa, ma non solo.
Lo storico Quinto Antonelli – responsabile dell’Archivio della scrittura popolare e autore, tra l’altro, del saggio “I dimenticati della Grande Guerra. La memoria dei combattenti trentini (1914-1920)” – ha aperto l’anno sociale della novantacinquenne Società di studi trentini di scienze storiche presieduta da Marcello Bonazza, e di cui è socio, con una relazione che ha lasciato il segno.
Nell’aula magna della Fondazione Kessler di via Santa Croce a Trento, più che mai affollata, le lucide parole dello storico sono arrivate come stilettate. Antonelli ha messo in guardia dal rischio di banalizzare ed edulcorare la rappresentazione del conflitto a fini meramente turistici, propagandistici o di parte, si tratti di portare in palmo di mano i Kaiserjӓger trentini che combatterono con la divisa dell’Impero austro-ungarico o l’epopea degli alpini italiani.
“Su questi temi – ha detto – l’opinione pubblica trentina si divide ancora come hanno dimostrato le polemiche sollevate di recente dall’onorevole pattino Ottobre secondo il quale i 55 mila trentini che combatterono sul fronte orientale sono stati dimenticati”. “E’ una menzogna, che sono propenso a pensare in buona fede – ha proseguito lo storico – Quasi trent’anni di studi e ricerche su di loro sembra non siano servite a nulla. Ma è anche ora di collocare la figura di Cesare Battisti (traditore o martire, ndr) nel suo tempo, uscendo dal mito”. Perché Antonelli viene da quella scuola innovativa di ricercatori roveretani della rivista “Materiali di lavoro” che proprio di quei trentini analizzò e studiò le lettere e le scritture ricostruendone la storia, le angosce, i patimenti, il contesto.
Lo storico – che in precedenza aveva tracciato il lungo cammino ondivago che su questi temi ha investito nel corso dei decenni la società trentina e nazionale, tra sentimenti austriacanti e irredentistici – ha poi messo in guardia da un avvicinamento alle “vestigia” della Grande Guerra (musei, forti, fortificazioni, trincee, lapidi, monumenti, cimiteri) senza coglierne il significato profondo perché ormai tirate a lucido e recuperate per l’evento. “Ciò che va mostrato – è stata la riflessione di Antonelli – è il modo in cui ci si dilaniò, mettendo al centro della scena i “corpi” di soldati che erano considerati meno che uomini. Il rischio è quello di una romanticizzazione dei paesaggi di guerra, di una mistica della montagna teatro di tanti scontri e di una banalizzazione degli oggetti presenti nei musei del territorio affidati a volontari “custodi della memoria”. “Preoccupa – ha concluso Antonelli – la trasmissione di una memoria secondo cui la violenza possa risultare asettica, quando invece non lo è mai, oscillante tra sacralità, banalizzazione e spirito entusiastico, con conseguente ridimensionamento della realtà della guerra ad un ambito famigliare”.
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